Domenica, 22 Dicembre 2024 04:24
Maria Mingione

Maria Mingione

L’art. 97 comma 2 della Cost. prevede che i pubblici uffici siano organizzati secondo disposizioni di legge, in modo tale che siano assicurati i principi di buon andamento e di imparzialità. Tale norma fonda a livello costituzionale il principio di legalità cui deve essere sottoposta non solo l’organizzazione bensì, in senso più ampio, tutta l’attività amministrativa.

Il rilievo costituzionale del principio di legalità si ricava, inoltre, indirettamente anche dagli artt. 24 e 113 Cost., norme che assoggettano l’attività amministrativa al controllo dell’autorità giudiziaria. Tale controllo, difatti, non potrà che vertere sulla verifica di un eventuale contrasto con norme di legge, la cui osservanza è pertanto imposta alla pubblica amministrazione già a livello costituzionale.

Il principio trova, in ogni caso, esplicita menzione nella normazione primaria, all’art. 1 L. 241/1990, secondo il quale l’attività amministrativa deve perseguire i fini stabiliti dalla legge.

Il principio di legalità implica innumerevoli corollari sul piano applicativo, tra i quali assumono rilievo i principi di tipicità e di nominatività dei provvedimenti amministrativi.

E’ necessario osservare, tuttavia, che la norma di legge che fonda il potere dell’amministrazione e che individua la finalità da perseguire, nonché lo schema procedimentale da utilizzare, non sempre riconosce all’ente procedente gli stessi margini di scelta.

A tal proposito, si distingue tra provvedimenti vincolati e provvedimenti discrezionali.

Per quanto attiene ai primi, il rapporto tra legge e provvedimento sottende un’accezione di legalità intesa in senso forte, considerato che la prima disciplina in modo rigoroso e puntuale il contenuto che dovrà avere il secondo, non lasciando all’amministrazione alcuno spazio per scelte differenti.

In tali casi, il contenuto dispositivo del provvedimento, caratterizzato da una motivazione semplificata, si limiterà a dare conto della ricognizione dei presupposti di fatto individuati dalla legge, seguendo pedissequamente lo schema procedimentale da questa previsto.

Il contenuto predeterminato del provvedimento consente al giudice un sindacato pieno, potendo quest’ultimo verificare se l’atto emanato sia stato rispettoso della rigida previsione normativa, ed anche sostituirsi all’amministrazione in caso di inerzia.

L’art. 31, co. 3 c.p.a., infatti, nel disciplinare l’azione avverso il silenzio-inadempimento prevede che il giudice possa pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio “quando si tratta di attività vincolata”.

Per quanto attiene, invece, ai provvedimenti discrezionali, essi corrispondono ad una accezione debole di legalità. Ed invero, per tali atti la legge, dopo aver attribuito il potere all’amministrazione e stabilito l’interesse pubblico da perseguire, consente all’organo procedente la facoltà di scegliere, tra più comportamenti leciti, quello ritenuto più opportuno per il perseguimento dell’interesse pubblico affidato alla sua cura. All’amministrazione la legge, talvolta, concede la libertà di scegliere se emettere o meno il provvedimento, in altri casi, invece, permette di stabilire il momento più opportuno per la sua emanazione

In ogni caso, si osserva come il provvedimento discrezionale, a differenza di quello vincolato, non si limiti ad applicare regole di legittimità poste dalla legge attributiva del potere e sindacabili dal giudice. Nell’esercizio della facoltà di scelta, invero, l’amministrazione applica anche regole di merito, ovvero regole non giuridiche di opportunità e convenienza che orientano l’azione nel perseguire l’interesse pubblico.

Tale area, non soggiacendo al principio di legalità, è sottratta al controllo giudiziale e costituisce un limite invalicabile al sindacato del giudice.

 

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Il Decreto legislativo 30 dicembre 2023 n. 220, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 3 gennaio 2024, n. 2 ed in vigore dal 4 gennaio 2024, reca le nuove regole del contenzioso tributario, in attuazione dell’articolo 19 della Legge 09 agosto 2023, n. 111, “Delega al Governo per la riforma fiscale”.

La normativa contenuta nel D.Lgs. 220/2023 è ricca di nuovi contenuti in merito alle regole sulla notificazione dell’atto presupposto, sull’autotutela, sull’accertamento con adesione e sul contraddittorio anticipato.

Come regola generale diviene applicabile a tutti gli atti impugnabili dinanzi ai Giudici tributari il principio del contraddittorio generalizzato a norma del quale tutti gli atti autonomamente impugnabili dinanzi alla Giurisdizione Tributaria sono preceduti, a pena di annullabilità, da un “contradditorio informato ed effettivo” ai sensi dell’art. 6-bis della l. 27.7.2000, n. 212. Questa fase va di fatto a sostituire quella del reclamo e mediazione che, non essendo mai stata strutturata dinanzi a un terzo ma condotta come mero riesame da parte degli Uffici, era già di fatto una fase amministrativa, anche se regolamentata nell’ambito delle norme sul processo.

Secondo questo nuovo percorso, l’Amministrazione Finanziaria comunica obbligatoriamente al contribuente lo schema di provvedimento di accertamento assegnandogli un termine non inferiore a 60 giorni per proporre le proprie controdeduzioni. Al termine si può annullare lo schema di provvedimento, chiudendo la fase istruttoria, ovvero emettere l’avviso di accertamento, se le ragioni addotte non sono ritenute valide in tutto o in parte, dando conto delle osservazioni fatte dal contribuente sulle quali si innestano le motivazioni in relazione a quanto non è stato accolto dall’ufficio.

Al contribuente insoddisfatto non resta altro che proporre il ricorso (che non è più attivato sotto la forma dei reclamo e mediazione poiché l’art. 17-bis del d.lgs. 31.12.1992, n. 546, è stato abrogato) confidando nell’accoglimento delle proprie ragioni con l’annullamento della pretesa fiscale.

Sul piano dell’ordinamento giudiziario tributario, sono stati ridenominati gli organi di giustizia tributaria in Corti Tributarie di primo e di secondo grado; è stato introdotto un ruolo autonomo e professionale della Magistratura Tributaria con la previsione di magistrati tributari reclutati tramite concorso per esami e la facoltà per gli attuali giudici togati, di transitare definitivamente e a tempo pieno nella giurisdizione tributaria speciale.

Sul piano processuale, invece, è stato previsto che le controversie di modico valore siano devolute ad un giudice monocratico; è stata potenziata la conciliazione giudiziale, è stato superato il divieto di prova testimoniale, è stato consolidato il principio logico – argomentativo dell’onere della prova a carico dell’ente impositore, con maggiore responsabilità dei funzionari responsabili degli enti in caso di rifiuto ingiustificato delle istanze di reclamo e delle proposte di definizione formulate dai contribuenti, sollecitandoli ad adottare, attraverso un riesame del proprio operato, provvedimenti di autotutela finalizzati a evitare, se possibile, la condanna al pagamento delle spese processuali; è stato modificato il procedimento cautelare di sospensione dell’esecuzione dell’atto, è stata disciplinata in modo più organico e preciso la c.d. video-udienza.

È stato, inoltre, potenziato il giudizio di legittimità, con la creazione in Cassazione di una sezione civile deputata esclusivamente alla trattazione delle controversie tributarie, nonché la previsione di una definizione agevolata dei soli giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di Cassazione.

Il Decreto Legislativo n. 219 del 30 dicembre 2023 ha introdotto significative novità in materia di autotutela tributaria, apportando modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente (Legge del 27 luglio del 2000, n. 212) con l’inserimento dell’esercizio del potere di autotutela obbligatoria (art. 10-quater) e dell’esercizio del potere di autotutela facoltativa (art. 10-quinquies).

In sintesi, con la riforma della giustizia tributaria e del processo tributario, è stata data attuazione agli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, incentrati sul miglioramento della qualità delle sentenze tributarie e sulla riduzione del contenzioso in Corte di Cassazione, con la finalità di garantire la certezza del diritto.

 

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La conferenza dei servizi è stata concepita dal Legislatore del 1990 quale generale strumento di concentrazione, in un unico contesto logico e temporale, delle valutazioni e delle posizioni delle diverse amministrazioni portatrici degli interessi pubblici rilevanti in un dato procedimento amministrativo.

La questione trae origine dalla circostanza per cui l’ambito applicativo dell’art. 17 bis (silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche) sembra coincidere con le ipotesi di conferenza di servizi obbligatoria (decisoria).

L’art. 17 bis della L. 241/1990 stabilisce che, “nei casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, al fine di adottare provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre PP.AA., le amministrazioni devono comunicare il proprio assenso nel termine di trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, con la relativa documentazione, da parte dell’amministrazione procedente. Decorso inutilmente il suddetto termine di trenta giorni, che può essere interrotto qualora l’amministrazione manifesti motivate esigenze istruttorie, l’atto di assenso si intende acquisito”.

Il descritto meccanismo di silenzio-assenso tra Amministrazioni pubbliche e tra Amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici si applica altresì nei casi in cui sia prevista l’acquisizione di atti di assenso, nulla osta, pareri da parte di PP.AA. preposte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del territorio, dei beni culturali, della salute dei cittadini. In tali ipotesi, ove le specifiche disposizioni di Legge non prevedano un termine diverso, il termine entro cui rendere l’atto di assenso è pari a novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’Amministrazione procedente.

In proposito, il Consiglio di Stato si è interrogato circa l’opportunità di ricorrere alla conferenza di servizi anche ove sia possibile applicare lo strumento di cui all’art. 17 bis della L.241/1990. Ci si è chiesto, pertanto, se sia utile anche in termini di economicità dell’azione amministrativa, ricorrere allo strumento della conferenza di servizi e non, invece, applicare direttamente il nuovo art. 17 bis della L.241/1990.

Il consesso, al fine di risolvere le indicate questioni controverse, ha ritenuto di dover accordare preferenza al criterio in virtù del quale l’art. 17 bis troverebbe applicazione ove l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso da parte di una sola altra Amministrazione, mentre, nel caso sia necessario acquisire una pluralità di assensi, sarebbe auspicabile ricorrere alla conferenza di servizi.

I Giudici di Palazzo Spada, osservano, tuttavia, che allo scopo di estendere l’ambito applicativo dell’art. 17 bis, il quale, rispetto alla conferenza di servizi, si presenta come uno strumento di più agile utilizzo, si potrebbe, comunque, dare priorità all’applicazione del medesimo, anche in presenza di più assensi provenienti da diverse PP.AA.; in tal senso, la formazione del silenzio-assenso secondo lo schema dell’art. 17 bis permetterebbe di prevenire la necessità di ricorrere alla conferenza di servizi. Quest’ultima, dovrebbe essere necessariamente convocata ove il silenzio-assenso non si sia formato per effetto del dissenso manifestato dalle Amministrazioni; il superamento del suddetto dissenso, infatti, potrebbe avvenire solo mediante il ricorso alla conferenza.

Nello specifico, il Collegio, chiarisce che, pur essendoci un’apparente identità tra il richiamato art. 17 bis e la disciplina della conferenza di servizi, in specie quella asincrona, diverso è il regime del superamento dei dissensi, previsto, rispettivamente, dall’art. 17 bis, comma 2, e dall’art. 14 quinquies.

Entrambe le disposizioni, infatti, attribuiscono la competenza ad adottare la decisione finale al Presidente del Consiglio dei Ministri, ma, nell’ambito della conferenza dei servizi, si registra la sussistenza di maggiori garanzie procedimentali e, di conseguenza, di una più forte complessità, anche in attuazione del principio di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni.

 

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L’esame del principio d’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, e dei problemi interpretativi che esso solleva in ordine alla sua esistenza e al fondamento dogmatico, è collegato alle caratteristiche essenziali dell’obbligazione tributaria.

Secondo autorevole dottrina, l’imposta, quale categoria giuridica ben delineata, risponde ad una funzione tipica ed esclusiva, che condiziona e definisce l’essenza stessa dell’obbligazione tributaria, ovvero alla funzione di riparto della spesa pubblica.

L’obbligazione tributaria, in ragione delle sua natura sui generis che ne giustifica l’attrazione nell’alveo delle obbligazioni pubblicistiche, non si esaurisce nel rapporto creditore- debitore tipico del diritto privato. Oltre al normale rapporto verticale di dare e avere tra il Fisco, in veste di creditore, e contribuente- debitore, esiste, parallelamente ad esso, un rapporto orizzontale tra contribuenti, tra i quali il carico impositivo deve essere ripartito in ragione della capacità contributiva, secondo il fondamentale principio scolpito dall’art. 53 Cost.

L’art. 53 Cost.,, nel sancire la doverosità della contribuzione alla spesa pubblica da parte dei cittadini, ne limita al tempo stesso la portata, ancorando il potere del legislatore di imporre prestazioni patrimoniali alla ricorrenza di situazioni in grado di esprimere capacità contributiva.

L’art. 53 Cost. è, dunque, espressione non solo del principio di universalità della contribuzione ma anche di equità del sistema fiscale, che si traduce nella pretesa di ciascun contribuente ad un giusto riparto del carico pubblico complessivo, ovvero a non subire un prelievo superiore alla propria capacità contributiva, manifestata in concreto attraverso comportamenti ritenuti indici espressivi di forza economica.

La contrapposizione tra l’interesse dell’ente impositore alla massimizzazione del gettito e quello del contribuente alla riduzione del carico fiscale è da sempre considerata immanente al diritto tributario, e investe gli elementi costitutivi del tributo, ovvero la sua stessa istituzione, la base imponibile, il presupposto, l’aliquota;

Per tutelare la posizione del singolo contribuente e garantire che il concorso di tutti i coobbligati rispetti il principio di equità, non basta fissare ex ante dei limiti qualitativi e quantitativi al legislatore ordinario in sede d’istituzione di nuove imposte, o prevedere il controllo di costituzionalità ex post, ma occorre inibire all’Amministrazione Finanziaria il potere di disporre del credito tributario. In quest’ottica, infatti, qualsiasi atto dispositivo finirebbe per alterare i meccanismi di ripartizione del carico tributario fissati dal legislatore, vanificando sul piano concreto il principio di capacità contributiva.

La nozione stessa di “indisponibilità”, è stata declinata dai cultori del diritto tributario con una varietà di accezioni e sfumature tale da rendere difficile un’opera di ricomposizione sistematica, tesa a ricondurre in poche categorie omogenee le diverse teorie prospettate.

Una posizione di primo piano va riservata a quelle tesi che riconducono l’indisponibilità del tributo al dovere generale di contribuire alle spese pubbliche secondo capacità contributiva, sancito dall’art. 53 Cost.

Una seconda teoria riconduce il principio d’indisponibilità all’art. 23 Cost., in quanto sostiene riconosce solo la legge, e gli atti ad essa equiparati, quale unica fonte normativa idonea ad imporre prestazioni patrimoniali ai cittadini, appare evidente che l’Amministrazione non potrà né emanare atti che incidono sui presupposti impositivi delineati dal legislatore, né, tantomeno, creare fattispecie di esenzione o di esclusione tributaria.

Merita ora di essere presa in esame la teoria che ha ritenuto di individuare il fondamento dell’indisponibilità nell’art. 97 Cost: alla base di siffatto indirizzo vi è la convinzione che l’indisponibilità del credito tributario deriverebbe non già da un’incompatibilità in astratto tra l’imparzialità dell’azione amministrativa e il potere negoziale di rinuncia al credito, ma dalla difficoltà, riscontrabile nella pratica, di assicurare che l’attività degli Uffici resti informata ai doveri fondamentali d’imparzialità e correttezza nel momento del concreto esercizio dei poteri di disposizione.

Si può rilevare come la tradizionale contrapposizione tra chi aderisce alle teorie che riconducono il carattere indisponibile dell’obbligazione tributaria a precetti costituzionali, e chi, all’opposto, propende per le tesi che negano tale fondamento costituzionale, non si esaurisca più in una sterile disputa dottrinaria.

Non v’è dubbio, infatti, che riconoscere all’indisponibilità una dimensione costituzionale significa non solo vietare qualunque manifestazione autonoma del potere dispositivo da parte dell’Amministrazione Finanziaria, in virtù del principio di riserva di legge, ma anche precludere a una norma di legge ordinaria la possibilità di introdurre meccanismi che consentano all’Amministrazione di rinunciare o disporre del credito, pena la violazione del principio d’indisponibilità costituzionalmente tutelato.

 

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L’ATTUAZIONE DI PRINCIPI DEL DIRITTO TRIBUTARIO CON LO STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE

 

Lo Statuto dei diritti del contribuente è stato introdotto con l. 27 luglio 2000, n. 212. Nell’art. 1, co. 1 di tale legge si indica espressamente che essa attua gli “articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione”, che le disposizioni contenute nello Statuto dei diritti del contribuente “costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario”, che tali disposizioni “possono essere derogate o modificate solo espressamente” e in ogni caso “mai da leggi speciali.

L’articolo 1 dello Statuto del Contribuente nella sua versione letterale innovata raccorda i principi dello Statuto del Contribuente alla diretta attuazione delle norme della Costituzione, dei principi dell’Ordinamento dell’Unione Europea e della Convenzione europea dei diritti fondamentali dell’Uomo, rendendoli applicabili a tutti i soggetti del rapporto tributario.

Preliminarmente va rappresentato come essi continuino a essere dotati di un’investitura legislativa ordinaria, senza privilegi particolari nella gerarchia delle fonti di diritto, per cui sotto tale profilo continuano a rimanere assoggettati all’ordinaria successione delle leggi nel tempo e teoricamente si prestano ad essere sostituiti, revocati o modificati da norme successive.

Tuttavia, nonostante non siano dotati di prerogative di rinforzo, la nuova espressione letterale li rappresenta come regole di diretta attuazione di fonti invalicabili in ordine ai principi in esse evocati (Costituzione, Ordinamento Europeo e CEDU).

Principio costituzionale e principio statutario non sono separabili in quanto tra essi si instaura un pieno rapporto di osmosi funzionale in virtù del fatto che il secondo esplicita con maggiore dettaglio il primo. Eludere la prescrizione statutaria equivale, quindi, eludere il principio di rango costituzionale, per cui una norma che elude lo Statuto elude anche la Costituzione e non può che destrutturarsi di ogni effetto giuridico.

Il legislatore indica espressamente la ratio dello Statuto e quindi ne rileva la funzione per effetto di

interpretazione autentica.

La reale capacità delle norme dello Statuto di svolgere la funzione per cui sono state predisposte va rinvenuta nella loro concreta rispondenza alla funzione attuativa dei suddetti principi costituzionali.

Può affermarsi quindi che le norme dello Statuto non rappresentano norme di rango costituzionale, ma, come riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., ord. 6.7.2004, n. 216), forniscono criteri guida per interpretare le norme tributarie.

In quanto legge di attuazione dei principi costituzionali, lo Statuto può però rappresentare uno strumento di intervento legislativo capace di stabilire diritti e obblighi.

Lo Statuto palesa la propria funzione di legge di attuazione di principi costituzionali e consente al legislatore di fornire ai suddetti principi una dimensione più precisa e concreta all’interno della materia tributaria. Pertanto, alle sue disposizioni con carattere precettivo e direttamente applicabili va riconosciuta una forza passiva potenziata che può ricollegarsi in via interpretativa come effetto dell’obiettivo legislativo di stabilire una disciplina sistematica di questa materia.

Possiamo ben trovare principi generali dell’ordinamento tributario anche al di fuori dello Statuto, come ad esempio l’obbligo di collaborazione delle parti private necessario per consentire l’attuazione del tributo, la tutela dell’interesse fiscale e l’esigenza di bilanciarla con l’uguaglianza delle parti (che costituisce una forma di attuazione dell’art. 3 Cost. non direttamente riconducibile allo Statuto) e vari principi applicabili alle leggi tributarie sostanziali, come quelli di inerenza e competenza, in materia di imposte dirette, o di neutralità, in materia di imposta sul valore aggiunto.

Può concludersi che lo Statuto rappresenti il principale strumento di attuazione dei principi del diritto

applicabili alla materia tributaria, sia per quanto riguarda la formazione delle leggi, sia per quanto riguarda il procedimento tributario, sia per quanto riguarda infine l’ambito del rapporto giuridico denominato comunemente obbligazione tributaria.

Nonostante non determini una vera e propria estensione dei principi costituzionali, lo Statuto li attua in modo da rafforzare la certezza del diritto in merito all’applicazione nella materia tributaria della disciplina comune prevista all’interno dell’ordinamento giuridico. In questo senso, lo Statuto può rappresentare un primo coacervo di codificazione della materia tributaria. Esso però lascia irrisolte molte problematiche interpretative. Tali problematiche vanno risolte in sede di applicazione giudiziale delle norme tributarie e incidono sulla concreta disciplina dell’obbligazione tributaria, che allo stato attuale rimane estremamente frammentata.

 

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