Domenica, 22 Dicembre 2024 04:01
Maria Mingione

Maria Mingione

Il giudizio di ottemperanza è lo strumento da attivare per ottenere l’esecuzione di una sentenza pronunciata nei confronti della P.A. sulla quale grava, quindi, l’obbligo di conformarsi. Si tratta della più importante ipotesi di giurisdizione estesa al merito attribuita al giudice amministrativo, potendo quest’ultimo sostituirsi alla P.A. inadempiente nell’adozione dei provvedimenti necessari a dare attuazione alla pronuncia giurisdizionale non eseguita, direttamente o a mezzo di commissario ad acta.

Ai sensi degli artt. 59 e 112 c.p.a., se la P.A. non ottempera in tutto o in parte alle misure cautelari concesse, ovvero alla sentenza di primo grado del Tar non sospesa dal Consiglio di Stato, l’interessato può esperire il rimedio in esame.

I presupposti dell'azione per l'ottemperanza sono, in estrema sintesi: a) una decisione da eseguire (il cosiddetto giudicato); b) l'inottemperanza dell'amministrazione all'obbligo di conformarsi alla suddetta decisione.

Quanto alla natura giuridica del rimedio, l’orientamento allo stato prevalente è quello che riconosce natura mista al processo di ottemperanza, quale giudizio cognitorio ed esecutivo.

In tale giudizio, infatti, alla fase di cognizione, nella quale il giudice accerta l’inadempimento dell’amministrazione, segue quella esecutiva, volta a dare in concreto esecuzione alla sentenza con l’assegnazione all’amministrazione di un termine per provvedere e la nomina del commissario ad acta nell’ipotesi di persistente inottemperanza.

In giurisprudenza si tende ormai a riconoscere al presupposto dell’inottemperanza un’estensione ampia, ricomprendendovi non solo i casi in cui l’amministrazione non adotta il provvedimento conseguente alla sentenza, ma anche quelli in cui pone in essere un provvedimento violativo o elusivo del giudicato, nonché le ipotesi di attuazione incompleta o parziale dell’obbligo di esecuzione del giudicato. Ai sensi dell’art. 114 co. 1 c.p.a. non è, invece, più necessaria la previa diffida ad adempiere.

L’art. 21 septies della L.241/1990 menziona, tra le altre ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, la violazione o l’elusione del giudicato. Tale disposizione assume rilievo anche processuale alla luce di quanto disposto dall’art. 114, co. 4, lett. b) c.p.a., secondo il quale il giudice, in caso di accoglimento del ricorso per l’ottemperanza, dichiara nulli gli eventuali atti adottati in violazione o elusione del giudicato.

Il giudizio di ottemperanza è infatti diretto a verificare se la P.A. abbia adempiuto effettivamente all’obbligazione nascente dal giudicato, attribuendo al privato quell’utilità concreta che la sentenza ha riconosciuto come dovuta.

Affinchè possa ravvisarsi il vizio di violazione od elusione del giudicato, non è sufficiente che la riedizione dell’azione amministrativa alteri l’assetto degli interessi definito dalla pronunzia passata in giudicato, ma è necessario che la P.A. eserciti nuovamente la medesima potestà pubblica, già illegittimamente esercitata, in diretto contrasto con il contenuto precettivo del giudicato amministrativo (violazione), o cerchi di realizzare il medesimo risultato con un’azione connotata da uno sviamento di potere (elusione).

In ogni caso, ai fini del riscontro del vizio in esame è necessario che dal giudicato derivi un obbligo puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza, con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire.

 

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LA NATURA GIURIDICA DELLA RESPONSABILITA’ DELLA P.A. DA ILLEGITTIMO O

RITARDATO ESERCIZIO DEL POTERE

Il tema della natura giuridica della responsabilità della Pubblica Amministrazione da illegittimo o ritardato
esercizio del potere amministrativo è da tempo al centro di un ampio dibattito pretorio e dottrinario.
Basti qui ricordare che le diverse soluzioni prospettate nel tempo sono quelle che ascrivono la responsabilità
medesima allo schema: a) “aquiliano” o della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (si tratta
dell’opzione ermeneutica seguita dalla Sez. Un. 500/1999 e recepita dall’art. 30 del Codice del Processo
Amministrativo); b) contrattuale “da contatto sociale qualificato” tra il privato e la P.A. a seguito dell’avvio
del procedimento amministrativo; precontrattuale ex art. 1337 c.c., derivante da un comportamento del
soggetto pubblico che ha inciso sul diritto del privato di autodeterminarsi nel rapporto negoziale; d) e
“misto”, nel senso che assorbe taluni tratti distintivi delle tre forme di responsabilità tipiche del diritto civile
e le combina insieme.
Sull’argomento l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sent. 7/2021, ha preso un’espressa e netta
posizione, stabilendo che la responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità
provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha
natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano (art. 2043 c.c.) e non già di responsabilità da
inadempimento contrattuale (previsto dall’art. 1218 c.c.).
La responsabilità da inadempimento si fonda sul non esatto adempimento della “prestazione” cui il debitore è
obbligato in base al contratto. Un vincolo obbligatorio di analoga portata non può essere configurato per la
P.A. che agisca nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e quindi nel perseguimento dell’interesse
pubblico definito dalla norma attributiva, che fonda la causa giuridica del potere autoritativo.
Sebbene a quest’ultimo si contrapponga l’interesse legittimo del privato, la relazione giuridica che si instaura
tra il privato e l’amministrazione è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive, l’interesse
legittimo del privato e il potere dell’amministrazione nell’esercizio della sua funzione. In questo caso quindi
è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all’amministrazione, rapportabile a quello che
caratterizza le relazioni giuridiche regolate dal diritto privato, bensì un potere attribuito dalla legge, che va
esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza.
Né la fattispecie in esame può essere ricondotta alla dibattuta nozione di “contatto sociale”, in quanto la
relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di “supremazia”, cioè da una
asimmetria che mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondono sulla relazione paritaria.
Anche in un’organizzazione dei pubblici poteri improntata al buon andamento, in cui si afferma il modello
dell’amministrazione “di prestazione”, quest’ultima mantiene rispetto al privato la posizione di supremazia
necessaria a perseguire “i fini determinati dalla Legge” (art. 1, comma 1, della L.241/1990), con atti di
carattere autoritativo in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato.
Il Supremo Consesso Amministrativo ha chiarito che gli elementi necessari per affermare la responsabilità
della P.A. sono: a) l’elemento oggettivo, ossia l’ingiustizia del danno che deve avere determinato la lesione
dell’interesse al bene della vita (a cui si collega l’interesse legittimo); b) il nesso causale tra la condotta
illegittima e il danno ingiusto; c) e l’elemento soggettivo dell’illecito, costituito dal dolo o dalla colpa del
soggetto pubblico.
Pertanto, è necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione
delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 c.c. i criteri limitativi della consequenzialità
immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227
c.c., e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 c.c.
In definitiva, il danno da ritardo si realizza comunque nell’esercizio del potere, essendo patologia che
afferisce al cattivo uso, sul piano temporale, dello stesso. In altri termini, in caso di ritardo nell’adozione
dell’atto, la condotta amministrativa è inficiata dalla violazione delle norme pubblicistiche di azione che
impongono l’adozione di un provvedimento espresso nei termini.
Da tale postulato oltrechè dalla lettera dell’art. 30 c.p.a. e dell’art. 2 bis della L. 241/1990, l’Adunanza
Plenaria trae un corollario importante: il paradigma cui è improntato il sistema della responsabilità

dell’Amministrazione per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di
quella doverosa, devoluto alla giurisdizione amministrativa, è quello della responsabilità da fatto illecito.

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RIFORMA PENALE E TENUITA’ DEL FATTO: NUOVE PROSPETTIVE PER I REATI TRIBUTARI
L’art. 131 bis, primo comma, cod. pen., così come novellato dal D. Lgs. n. 150/2022 “ c.d. “Riforma
Cartabia”) dispone che “nei reati per i quali é prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due
anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità é esclusa quando, per le
modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo
comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il
comportamento risulta non abituale”.
La finalità di tale previsione normativa è quella di escludere la punibilità nei confronti dell’autore di un reato
che abbia determinato un danno di particolare tenuità in relazione al bene giuridico tutelato dalla fattispecie
incriminatrice che si assume violata, sempreché si tratti di un comportamento occasionale.
La modifica normativa dell’istituto ad opera del D. Lgs. n. 150/2022 consente la sua applicabilità anche alla
maggior parte dei reati tributari, che sono puniti con la pena della reclusione inferiore a due anni nel minimo,
ad esclusione dei reati di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti”, “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”, “emissione di fatture per operazioni
inesistenti” e “occultamento o distruzione di documenti contabili”, previsti dagli artt. 2, 3, 8 e 10 del D.Lgs
n. 74/2000 i quali, per i delitti commessi dopo il 27 ottobre 2019, prevedono pene che nel minimo edittale
superano i due anni di reclusione.
Si precisa che l’istituto di cui all’art. 131 bis cod. pen. ha natura sostanziale e, quindi, la modifica normativa
che ne ha ampliato i requisiti oggettivi, comportando un effetto favorevole, si applica retroattivamente anche
a reati commessi prima della modifica intervenuta con la c.d. “Riforma Cartabia”, in base alla previsione
dell’art. 2, comma 2, cod. pen., tranne che per le fattispecie per cui sia intervenuta una sentenza passata in
giudicato.
In relazione ai delitti tributari, è altresì necessario analizzare se vi sia la possibilità di applicare l’istituto in
esame a fattispecie per cui il Legislatore abbia previsto delle soglie di punibilità, superate le quali la
violazione tributaria assume anche rilevanza penale come, ad esempio, nel caso dei delitti di infedele
dichiarazione, omessa dichiarazione e in quelli di omesso versamento e indebita compensazione.
La questione è stata risolta dalla Cassazione, a Sezioni Unite, sulla base del principio per cui il giudizio sulla
tenuità del fatto richiede una valutazione complessa, che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità
del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., richiedendosi una
equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta e non solo di quelle che attengono
all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto (cfr. Cass. Pen. Sez. Un. 25.2.2016, n. 13681).
Da ultimo, in riferimento ai delitti tributari, occorre inoltre domandarsi se il pagamento del debito tributario
ai fini della valutazione possa configurare comportamento rilevante ai fini della valutazione della
“particolare tenuità”. L’integrale estinzione del debito tributario, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs n. 74/2000,
costituisce causa di non punibilità per taluni reati connotati da un minore disvalore se effettuato prima
dell’apertura del dibattimento di primo grado oppure, per i reati di dichiarazione fraudolenta, se avviene
prima dell’inizio delle operazioni di verifica fiscale.
Recentemente la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che nell’ipotesi di “omesso versamento di IVA” di
cui all’art. 10 ter del D.Lgs n. 74/2000 l’estinzione del debito tributario avvenuto mediante pagamento
rateale possa essere valorizzata come condotta susseguente al reato idonea a ridurre il grado dell’offesa al
bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice, anche se da valutarsi nel complesso di tutti gli
elementi caratterizzanti la condotta.
Nel caso concreto, la Corte di Cassazione ha affermato che “la condotta susseguente al reato (che, ove
intervenuta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado avrebbe certamente
consentito l’applicabilità dell’altra speciale causa di non punibilità prevista dall’art.13, comma 1, D. Lgs n.
74 del 2000) ha sostanzialmente neutralizzato la gravità dell’offesa, originariamente consistente, provocata
all’Erario, avendo i ricorrenti dimostrato con il proprio comportamento la volontà di assolvere il debito
tributario, provvedendo tempestivamente ad onorare il piano rateale concordato con il Fisco” (cfr. Cass. Pen.
2.5.2023, n. 18029).
In conclusione, nel panorama del delitto penale tributario, la causa di non punibilità per particolare tenuità,
laddove applicabile, ha senz’altro la funzione di impedire di irrogare pene detentive che si rivelerebbero

sproporzionate rispetto alla concreta offensività del fatto e, soprattutto, consente di valorizzare come
condotta positiva susseguente al reato il pagamento del debito tributario che – di fatto - neutralizza l’offesa al
bene giuridico protetto dal sistema del D.Lgs n. 74/2000, consistente nell’interesse alla corretta percezione e
riscossione dei tributi.

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I PROFILI INNOVATIVI DEL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI

(DECRETO LEGISLATIVO N. 36/2023)

Attraverso i contratti ad evidenza pubblica, storicamente la P.A. si procura utilità e servizi necessari
alla realizzazione delle finalità istituzionali perseguite.
L’evoluzione della disciplina di tale materia vive del rapporto di tensione tra due esigenze: a) da un
lato, l’esigenza pubblicistico-contabilistica di operare la scelta del miglior contraente, ossia del
contraente che, alle condizioni contrattuali più favorevoli, assicuri l’erogazione di una prestazione
qualitativamente e quantitativamente più soddisfacente rispetto a quelle offerte dagli altri operatori
economici; in tale ottica, le norme in materia di evidenza pubblica assumono valenza interna e
mirano alla corretta formazione della volontà della P.A.
b) dall’altro, l’esigenza privatistico-concorrenziale, di matrice comunitaria, volta ad assicurare la
competizione paritaria tra gli operatori economici interessati all’aggiudicazione ed a preservare
l’assetto concorrenziale del mercato, su cui si fonda il corretto funzionamento dell’intero sistema
economico europeo; in tale visuale prospettica, più moderna, le norme in materia di evidenza
pubblica assumono valenza esterna.
Fondamentale, in questo rinnovato quadro normativo, è l’innovativa introduzione dei principi del
risultato, della fiducia e dell’accesso al mercato, espressamente richiamati come criteri di
interpretazione delle altre norme (art. 4) e ulteriormente declinati in disposizioni di dettaglio.
L’art. 14 definisce le soglie di rilevanza europea nei settori ordinari e speciali, il superamento delle
quali, attraverso gli ivi descritti metodi di calcolo, determina l’applicazione della disciplina
dell’evidenza pubblica contenuta nel Codice.
La norma risulta permeata da obiettivi di semplificazione e celerità delle procedure, realizzati
attraverso l’ampliamento dell’ambito operativo dell’affidamento diretto e della procedura negoziata
senza bando.
Il nuovo codice, a differenza del precedente, stabilisce l’ambito di operatività del principio di
rotazione degli affidamenti dei contratti sotto-soglia. In riferimento agli appalti sopra-soglia, ai
sensi dell’art. 70, l’aggiudicazione è effettuata ad esito di procedure aperte o ristrette.
Si ammette inoltre la possibilità per le stazioni appaltanti di utilizzare, oltre alle predette procedure,
sussistendo i presupposti ivi indicati, la procedura competitiva con negoziazione, il dialogo
competitivo ed il partenariato per l’innovazione (procedure negoziate).
In riferimento agli appalti sotto-soglia, le possibili procedure di affidamento sono individuate
dall’art. 50 del Codice.
Il D.Lgs n. 36/2023 interviene con rilevanti modificazioni sulla disciplina dei requisiti di
partecipazione alle gare di affidamento dei contratti pubblici e sugli istituti connessi, segnando un
cambio di rotta rispetto alla disciplina previgente. Il Legislatore cerca di trovare un punto di
equilibrio tra due contrapposte esigenze: da un lato quella di attuare il principio del favor
partecipationis, consentendo la partecipazione alla gara di tutti gli operatori economici interessati,
anche quelli di dimensioni medio-piccole; dall’altro, quello di consentire alla stazione appaltante di
aggiudicare la gara ad operatori che siano affidabili, corretti e concretamente in grado di eseguire la
prestazione pattuita secondo gli standard qualitativi e quantitativi richiesti.
In tale ordine di idee, si amplia la discrezionalità riservata alla stazione appaltante e si dilata lo
spettro applicativo di istituti strettamente collegati al valore della partecipazione, quali il soccorso
istruttorio, l’avvalimento e il subappalto; nella stessa ottica va letto anche l’ampliamento della
modificabilità soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese e del consorzio. Il nuovo
Codice segna un “ritorno al potere”, stimolando i funzionari ad utilizzare a pieno quella flessibilità
progettuale, programmatoria ed esecutiva, nell’ambito della loro autonomia organizzativa, onde

cogliere la specificità delle singole gare ed individuare volta per volta le soluzioni più idonee al
raggiungimento del risultato.

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LE IRREGOLARITA’ TRIBUTARIE E FISCALI NEGLI APPALTI PUBBLICI

 

L’art. 10 del D.L.gs n. 36/2023 sistematizza il principio di tassatività delle cause di esclusione, che vengono poi più puntualmente individuate dai successivi artt. 94 e 95, i quali integrano di diritto i bandi e le lettere di invito in quanto rispondenti a un interesse pubblico primario.

Mentre l’art. 94 disciplina le cause di esclusione automatica, comprimendo la discrezionalità della stazione appaltante, il successivo art. 95 prevede le cause di esclusione non automatica, in riferimento alle quali sarà la stazione stessa a dover verificare se l’infrazione riscontrata è tale da compromettere la moralità ed affidabilità economica dell’operatore.

Il nuovo Codice dei contratti pubblici, all’art. 95, comma 2, ha stabilito che: “la stazione appaltante esclude altresì un operatore economico qualora ritenga, sulla base di qualunque mezzo di prova adeguato, che lo stesso ha commesso gravi violazioni non definitivamente accertate agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o contributi previdenziali”.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 239 del 12.10.2022 il decreto del 28.9.2022 recante “Disposizioni in materia di possibile esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto per gravi violazioni in materia fiscale non definitivamente accertate”.

La “gravità” della violazione, non definitivamente accertata, agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse o contributi previdenziali deve essere valutata sulla base delle condizioni dettate dall’art. 3 dell’Allegato II.10 del Codice, ossia quando la violazione è pari o superiore al 10% del valore dell'appalto e purché tale l'importo non sia inferiore a 35mila euro.

In forza della nuova disciplina, ci si è interrogati se la Stazione Appaltante sia tenuta all’esclusione dell’operatore economico o se permangano degli spazi di discrezionalità, una volta che, a seguito di un doveroso contraddittorio, sia stato accertato che le violazioni non definitivamente accertate integrino le soglie di gravità di cui al suddetto Allegato.

In particolare, la disposizione dell’art. 95, comma 2, terzo periodo, del d.Lgs. n. 36/2023 secondo cui “La gravità va in ogni caso valutata anche tenendo conto del valore dell’appalto” deve essere intesa quale clausola interpretativa che la Stazione appaltante deve utilizzare ai fini della valutazione discrezionale sull’esclusione o meno del concorrente che sia incorso nella violazione non immediatamente escludente.

Il Collegio (Tar Sicilia, Catania, Sez. III, 09/11/2023, n. 3322) ha aderito all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la rilevata sussistenza a carico dell’operatore economico di “violazioni non definitivamente accertate”, pur se quantitativamente superiori alla soglia di gravità fissata dal legislatore ai fini della loro rilevanza escludente – rapportata al valore dell’appalto (siccome “pari o superiore al 10%” dello stesso) – non genera un effetto espulsivo automatico, ma subordinato ad una motivata valutazione espressa dalla stazione appaltante in ordine alla sua incidenza negativa sulla affidabilità del concorrente ( in tal senso, Consiglio di Stato, sez. III, 24/07/2023, n.7219).

In altri termini, la S.A., dopo aver accertato la gravità delle violazioni non definitivamente accertate, è tenuta ad effettuare due ulteriori valutazioni: una sulla moralità del concorrente e l’altra relativa alla sua “capacità di fare fronte agli oneri economici connessi alla esecuzione dell’appalto, tenuto conto, da un lato, dell’esposizione debitoria da cui è gravato nei confronti dell’Erario […] dall’altro lato, della sua dimostrata inclinazione a non assolvere gli obblighi assunti (o, come per quelli di carattere fiscale, generatisi ex lege a suo carico)”.

Solo qualora tali valutazioni abbiano una prognosi negativa, la S.A. può procedere all’esclusione del concorrente, motivando debitamente sulle risultanze della sua attività discrezionale.

E dunque, sebbene il Nuovo Codice sia meno netto nel descrivere i limiti alla discrezionalità amministrativa in materia di esclusioni non automatiche, i principi enunciati dalla giurisprudenza nell’ambito dell’art. 80, comma 4, del D.Lgs 50/2016, rimangono validi, ancora oggi, in sede di applicazione dell’art. 95, comma 2, del D.Lgs 36/2023 e quindi, le violazioni tributarie non definitivamente accertate, anche se gravi, non hanno effetto espulsivo automatico.

 

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