Mercoledì, 03 Luglio 2024 05:43
Maria Mingione

Maria Mingione

Il Silenzio Assenso

 

L SILENZIO ASSENSO: FERVIDO DIBATTITO GIURISPRUDENZIALE SULLA FORMAZIONE DELL’ASSENSO ANCHE QUANDO L’ATTIVITA’ OGGETTO DEL PROVVEDIMENTO DI CUI SI CHIEDE L’ADOZIONE NON SIA CONFORME ALLE NORME

 

Accanto al silenzio-rifiuto, che è un rimedio di tipo successivo, diretto a rimuovere gli effetti negativi dell’inerzia, l’ordinamento conosce un rimedio preventivo, che consiste nella eliminazione della stessa possibilità che il ritardo nella conclusione del procedimento produca effetti negativi in capo al soggetto interessato all’emanazione dell’atto.

Si tratta del c.d. “silenzio –assenso”, che costituisce una qualificazione giuridica formale del silenzio, nel senso che, decorso il termine di provvedere senza che la P.A. si sia pronunciata, l’istanza presentata dal privato si considera accolta.

In considerazione dell’art. 20 della L. 241/1990, nei procedimenti a istanza di parte (salve le eccezioni ivi contemplate), il decorso infruttuoso del termine di provvedere corrisponde a un accoglimento della domanda del privato.

Per tale ragione il silenzio assenso viene annoverato tra le ipotesi di silenzio cd. “significativo” ossia con valore provvedimentale, al quale la Legge ascrive valore legale tipico.

Il conferimento del valore di provvedimento tacito al silenzio dell’amministrazione rende di conseguenza illegittimo un eventuale sopravvenuto provvedimento espresso della P.A. di rigetto della domanda del cittadino.

Ciò, tuttavia, accade inevitabilmente? Accade, cioè, anche in quei casi in cui l’attività richiesta non sia conforme alla disciplina di settore? Sul tema sussistono visioni non univoche: da un lato vi è un orientamento che nega la formazione del silenzio assenso quando, pur al decorrere dei termini per provvedere, non ricorrano i presupposti sostanziali per il rilascio del titolo; dall’altro, si colloca un diverso filone che valorizza la funzione semplificatrice del silenzio assenso, anche a scapito dell’esigenza di conformità legale di un’attività privata soggetta al rilascio di un titolo autorizzativo alla relativa fattispecie normativa.

Il Consiglio di Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746, ha accolto il secondo orientamento e ha, pertanto, ritenuto formato il silenzio assenso in una fattispecie nella quale pure non ricorrevano i presupposti di Legge per il rilascio del titolo abilitativo sostituito dall’assenso tacito.

Secondo i giudici di Palazzo Spada, “il silenzio-assenso si forma anche quando l’attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l’adozione non è conforme alle norme che ne disciplinano lo svolgimento, e ciò in ragione dell’obiettivo di semplificazione perseguito dal legislatore – rendere più spediti i rapporti tra amministrazione e cittadini, senza sottrarre l’attività al controllo dell’amministrazione – che viene realizzato stabilendo che il potere (primario) di provvedere viene meno con il decorso del termine procedimentale, residuando la sola possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi silentemente”

É sufficiente soltanto il decorso del termine assegnato all'ente dalla normativa di riferimento in relazione al tipo di istanza del privato (per esempio, 60 giorni per il permesso di costruire in base all'articolo 20 del Dpr 380/2001) perché si formi il silenzio assenso, anche in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.

É comunque necessario che l'istanza sia aderente al modello normativo astratto prefigurato dal modello normativo astratto prefigurato dal legislatore.

 

Con la conseguenza che, spirato il termine, si consuma il potere della Pa di provvedere, residuando invece solo quello di intervenire in autotutela sul silenzio così formatosi e comunque alle condizioni fissate dall'articolo 21-nonies della legge 241/1990.

Di recente il Consiglio di Stato sez. VI, 04/03/2024, n.2082 ha affermato che il silenzio-assenso può determinarsi anche quando la richiesta di adozione del provvedimento non rispetta le norme che ne regolamentano lo svolgimento. L'obiettivo di semplificare i rapporti tra amministrazione e cittadini, mantenendo però il controllo da parte dell'amministrazione, si realizza conferendo il diritto di decidere entro il termine prestabilito e successivamente consentendo solo interventi in autotutela.

 

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Gli enti preposti alla gestione dell’imposizione tributaria e alla riscossione, raccolgono e conservano grosse quantità di dati di soggetti ed imprese.

Con riferimento alla privacy tributaria, non mancano riferimenti espliciti nel Regolamento UE 679/2016 (GDPR) e nel Codice Privacy come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.

Al di là del dato normativo, il Garante è più volte intervenuto sul tema della riservatezza di tale categoria di interessati. A titolo esemplificativo ma non esaustivo, l’Autorità si è pronunciata su innumerevoli questioni complesse, quali le comunicazioni all'anagrafe tributaria, la dichiarazione dei redditi pre compilata, i controlli antievasione o l’utilizzo dei dati derivanti dallo scambio automatico di autorità fiscali in materia di fatturazione elettronica.

In particolare, la tutela di un interesse collettivo quale l’affidabilità economica di un soggetto o la lotta all’evasione - specialmente in virtù della loro incidenza sui soggetti facenti parte di una collettività determinata - può giustificare, talvolta, la compressione di un altro diritto fondamentale quale la privacy.

Sul punto si è pronunciata, di recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la quale con la sentenza n. 36345/16 del 12 gennaio 2021 ha dichiarato legittima la diffusione di informazioni negative sul conto degli evasori, poiché - in ragione del contemperamento degli interessi in gioco - è naturale che quello pubblico alla trasparenza dell’affidabilità economica prevalga su quello individuale alla riservatezza. Inoltre, tale stratagemma, oltre a fissare un criterio di priorità, può fungere da deterrente e scongiurare ulteriori condotte lesive ai danni della legge tributaria.

Il caso aveva ad oggetto la pubblicazione da parte dell’Autorità nazionale fiscale e doganale ungherese, sul proprio sito web, dei dati anagrafici e fiscali del ricorrente in un apposito elenco dei soggetti maggiormente inadempienti nel pagamento delle imposte.

Il ricorrente sosteneva che era stato violato il suo diritto al rispetto della vita privata protetto dall’articolo 8 della Convenzione: la pubblicazione dei suoi dati personali nella lista degli evasori fiscali, perseguendo come unico scopo quello di screditare pubblicamente la sua persona, non poteva essere considerata una misura avente una finalità legittima. Si contestava, inoltre, l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo di deterrenza dalla reiterazione dell’evasione fiscale e la proporzionalità della stessa in relazione alla tipologia e alla portata di dati personali pubblicati, considerata abnorme rispetto all’obiettivo di identificazione dell’evasore.

La divulgazione dell’elenco delle persone debitrici verso l’erario rispondeva, dunque, secondo la Cedu, ad un interesse generale meritevole di tutela, non trattandosi di soddisfare la curiosità del pubblico, ma piuttosto di rendere pubblica l’identità delle persone che non rispettano i loro obblighi fiscali, anche al fine di tutelare gli interessi commerciali di terzi, incentivando così un corretto funzionamento del sistema fiscale e sociale.

La misura è stata infine giudicata proporzionata in relazione alla portata dei dati personali pubblicati e alle modalità di pubblicazione su Internet. La Corte ha valutato che la normativa operasse una distinzione tra i contribuenti sulla base di criteri pertinenti – quali l’ammontare del debito nei confronti del fisco e la durata dell’inadempimento – perseguendo così una logica di minimizzazione dell’ingerenza nella vita privata del ricorrente. Altri elementi ritenuti rilevanti dalla Corte nel giudizio di proporzionalità della misura sono stati la temporaneità della pubblicazione – destinata a cessare con l’adempimento degli obblighi fiscali – e la portata di dati pubblicati, giudicati strettamente necessari all’effettiva identificazione dell’evasore da parte degli altri consociati.

La sentenza in esame costituisce l’occasione per riflettere sulla protezione del diritto fondamentale alla protezione dei “dati personali” dei contribuenti nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, confrontando il livello di protezione assicurato dalle fonti europee (art. 8 della CEDU e artt. 7 e 8 della Carta di Nizza) e quello riconosciuto in materia tributaria dal diritto interno, come interpretato e applicato dalla Corte di Cassazione.

Infatti, il tema della protezione dei “dati personali” e, in generale, della riservatezza del contribuente nonché del corretto bilanciamento della protezione dei diritti fondamentali con l’interesse generale alla lotta all’evasione fiscale merita una crescente attenzione, soprattutto a seguito dei nuovi e potentissimi strumenti tecnologici, in continua evoluzione, a disposizione dell’Amministrazione finanziaria (italiana, come quelle degli altri paesi sviluppati), ormai utilizzati massivamente e ulteriormente implementati dallo sviluppo della intelligenza artificiale.

 

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Il principio di trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione, di cui il diritto di accesso costituisce un corollario fondamentale, è definito come l’accessibilità totale alle informazioni relative all’organizzazione e al funzionamento della Pubblica Amministrazione.

In un clima internazionale particolarmente sensibile alla lotta contro i fenomeni corruttivi, il Legislatore ha potenziato e implementato il principio di trasparenza, finalizzato all’affermazione di un “controllo diffuso di legalità” dell’agere amministrativo.

L’introduzione delle norme in materia di accesso ai documenti amministrativi, di cui al Capo V della L. 241/1990 (artt. 22 e ss.), ha segnato il passaggio da un sistema incentrato sul principio di segretezza ad un sistema basato sui principi di pubblicità e trasparenza.

A tale figura di accesso, si affiancano l’accesso civico, introdotto dal d.lgs n. 33 del 2013, e l’accesso generalizzato introdotto dal d.lgs n. 97 del 2016.

Il c.d. accesso classico o documentale, è un istituto a legittimazione ristretta, consentito solo a “chi intenda curare o difendere attraverso la conoscenza dell’atto, un diritto di cui sia già titolare”. L’istanza di accesso non può essere, quindi, diretta, ad “un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24 co. 3, l. 241/1990), deve essere corredata da adeguata motivazione

A differenza dell’acceso “classico”, collegato a stringenti limiti di legittimazione, l’acceso “civico” e l’accesso “generalizzato” non richiedono un interesse diretto, concreto e attuale del soggetto che ne faccia richiesta, in quanto l’acceso, in questa ipotesi, è riconosciuto a “chiunque”.

Con riguardo all’istituto dell’accesso civico, è opportuno osservare che qualsiasi cittadino può chiedere e ottenere le informazioni, senza dovere dimostrare di avere uno specifico interesse su di esse.

In coerenza, l’art. 5 co. 1 D.Lgs. 33/2013 non prevede che la richiesta di accesso debba essere motivata.

Inoltre, questa ipotesi di diritto di accesso non riguarda solo i documenti, ma anche informazioni o dati. Oggetto della richiesta potranno, quindi, essere le informazioni e gli atti anche se non pubblicati dall’ Amministrazione.

In relazione, invece, all’accesso universale, previsto dal nuovo comma 2 dell’art. 5, D.Lgs. 33/2013, si osserva che, il medesimo è ispirato al c.d. FOIA (Freedom of Information Act) e viene introdotto nel nostro ordinamento allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. La legittimazione a presentare richiesta di accesso è, pertanto, generalizzata e “chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione”. Ne consegue, quindi, che si tratta di un accesso civico libero, che ha ad oggetto tuti gli atti e i documenti dell’Amministrazione.

Ne consegue che se l’acceso civico può essere definito come strumento “proattivo”, poiché tende a stimolare l’adempimento dell’obbligo dell’Amministrazione di pubblicare i documenti e gli atti previsti dalla Legge, l’accesso universale è, invece, uno strumento “reattivo”, che si attiva a prescindere dall’obbligo della P.A. di pubblicare atti e documenti.

Un’altra differenza tra l’accesso civico e l’accesso universale si rinviene, poi, nell’ambito del procedimento che accompagna i due istituti. L’accesso civico, infatti, non necessita di contraddittorio con eventuali controinteressati, poiché il bilanciamento tra l’interesse alla pubblicità e l’interesse alla segretezza è effettuato a monte dal Legislatore; l’accesso universale, invece, ponendo limitazioni derivanti dalla necessità di tutelare alcuni diritti fondamentali, richiede il contraddittorio con gli eventuali controinteressati.

Quanto alla distinzione tra accesso classico e accesso generalizzato, aventi entrambi ad oggetto tutti gli atti detenuti dall’Amministrazione, va colta nei diversi limiti che la legge frappone all’ampiezza dell’uno e dell’altro. Infatti, con l’intento di bilanciare l’estensione dell’ambito applicativo dell’accesso generalizzato il Legislatore del 2016 ha introdotto, nel corpo del D.lgs. 33/2013 l’art. 5 bis, recante la disciplina relativa ad esclusioni e limiti all’acceso generalizzato.

Si tratta di limiti ed esclusioni che, in quanto frapposti ad un accesso del tutto slegato da requisiti legittimanti hanno portata molto più ampia (anche perchè descritti con riferimento al solo interesse in rilievo) rispetto a quelli puntualmente indicati (con riferimento a specifiche categorie di atti sottratti all’accesso) dall’art. 24 L. 241/1990 con riguardo all’accesso classico.

Non è un caso che la Giurisprudenza ha avuto cura di rimarcare la necessità di tenere distinte le tre fattispecie di accesso, proprio al fine di “calibrare i diversi interessi in gioco, allorchè si renda necessario un bilanciamento, caso per caso, tra tali interessi”: tale bilanciamento è, infatti, ben diverso, come chiarito, nel caso dell’accesso ex L. 214/1990, dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a documenti pertinenti e nel caso dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità, se del caso, in relazione all’operatività dei limiti, ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità e diffusione di dati, documenti e informazioni”.

 

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La tecnica del bilanciamento nel difficile equilibrio tra accesso agli atti amministrativi e tutela della privacy

L’introduzione del diritto di accesso ai documenti amministrativi ad opera della L. n. 241/1990 è stata la prima apertura del nostro ordinamento verso una amministrazione ispirata al principio di trasparenza. L’abbandono della vecchia impostazione che configurava gli atti amministrativi come un “segreto” segna senza dubbio un’evoluzione importante ma, al contempo, richiede fin da subito un’attenzione rivolta alla tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nelle vicende che, di volta in volta, possono divenire oggetto di divulgazione e di conoscenza.

Il 1 gennaio 2004 è entrato in vigore il Codice per la protezione dei dati personali, recepito nel D.Lgs. 196/2003, poi integrato profondamente dal Regolamento UE 2016/679.

Tale testo, oltre ad istituire l’Autorità Garante della Privacy, detta importanti norme in materia di tutela dei dati personali, i quali potrebbero essere compromessi dal diritto di accesso generalmente riconosciuto ai cittadini.

L’art. 15 del Regolamento UE 2016/679 disciplina quello che è noto come "diritto di accesso", ovvero la possibilità per l'interessato di ottenere dal titolare del trattamento la conferma o meno che sia presente un trattamento dei suoi dati personali e, in caso di risposta positiva, di ottenerne copia.

Quando, però, l’esibizione documentale comporti anche la conoscenza di dati personali di soggetti diversi rispetto al richiedente, le amministrazioni che ricevono le istanze di accesso si ritrovano a dover prendere in considerazione le esigenze di tutela dei terzi.

Proprio nell’ottica della protezione dei dati personali, l’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013, in conformità con la disciplina dell’Unione e di quella nazionale in materia, afferma che l’accesso deve essere negato quando sia necessario a evitare un “pregiudizio concreto” alla tutela di tali dati e dei diritti e libertà che da essa discendono.

Quindi, quando viene richiesto l’accesso a documenti la cui conoscenza potrebbe confliggere con l’esigenza di riservatezza di dati personali di soggetti terzi, l’amministrazione è chiamata ad effettuare un bilanciamento di interessi contrapposti: da un lato, la trasparenza e, dall’altro lato, la riservatezza.

Questa ponderazione tra interessi contrapposti dipende, fra le altre cose, da due elementi:1) dalla finalità dell’accesso; 2) dal tipo di dato che rischia di essere compromesso.

Sotto il primo versante, quando viene chiesto l’accesso a documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria ai richiedenti per curare o per difendere i propri interessi giuridici, esso deve comunque essere garantito: la valutazione rimessa all’amministrazione ha ad oggetto, quindi, la necessità di quanto richiesto.

Si ritiene comunemente che non è sufficiente che l’istanza di accesso faccia generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite ad un processo in corso o ancora da instaurare: l’istante dovrà, al contrario, motivare adeguatamente sul rapporto di necessarietà fra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa.

Solo se supererà positivamente questo vaglio rigoroso, la richiesta di ostensione al documento potrà essere accolta.

Sotto il secondo profilo, vi sono alcune tipologie di dati, che richiedono una tutela “rafforzata”, di seguito elencati:

- dati giudiziari ovvero quelli che rivelano l'esistenza di determinati provvedimenti giudiziari soggetti ad iscrizione nel casellario giudiziale (come, ad esempio, i provvedimenti penali di condanna definitivi, la liberazione condizionale, il divieto od obbligo di soggiorno, le misure alternative alla detenzione), nonché la qualità di imputato o di indagato;

- dati sensibili: ovverosia quelli idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale;

- dati super-sensibili, cioè i dati sensibili che sono idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

Per quanto riguarda i dati giudiziari e i dati sensibili, nelle operazioni di verifica sul possibile pregiudizio derivante dalla conoscibilità di queste informazioni, l’Amministrazione deve tenere conto di vari parametri.

In primo luogo, la natura sensibile o giudiziaria dei dati dovrebbe far propendere in linea di principio per il rifiuto dell’accesso generalizzato, salvo valutare poi caso per caso le varie situazioni particolari in cui non vi sarebbe comunque un pregiudizio (ad esempio perché le informazioni erano già state rese pubbliche dall’interessato stesso).

Inoltre, particolare attenzione dovrà essere posta nei casi in cui si tratti di informazioni che potrebbero comportare, in base al loro uso, rischi specifici per i diritti e le libertà degli interessati (come ad esempio i dati di localizzazione) o quando l’istanza di accesso abbia ad oggetto documenti contenenti informazioni su minori: in questi casi sarà auspicabile una maggiore cautela nell’accoglimento di tale istanza.

Ancora, è necessario tenere presente che, con riferimento ai dati e alle informazioni personali contenuti in documenti riferiti a singole persone (si pensi a professionisti iscritti a un Ordine o a un Albo o ai partecipanti ad una procedura di concorso) un eventuale accoglimento dell’accesso civico potrebbe determinare ripercussioni negative sul piano professionale, personale e sociale, non solo all’interno dell’ambiente lavorativo ma anche al di fuori.

Per quanto riguarda, infine, i dati super-sensibili, l’accesso è consentito solo se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso a documenti amministrativi sia di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, cioè consista in un diritto della personalità o in un altro diritto o liberà fondamentale e inviolabile. In ogni caso, occorrerà anche il requisito della indispensabilità.

Spetterà, quindi, all’amministrazione valutare il conflitto fra trasparenza e riservatezza, tenendo conto di tutta una serie di parametri ormai consolidati in materia di protezione dei dati personali: limitazione e minimizzazione del trattamento; principi di necessità, proporzionalità, pertinenza e non eccedenza; natura e tipologia dei dati personali e dei soggetti interessati; posizione ricoperta dagli stessi nella società.

 

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Con l’espressione “controlli fiscali” ci si riferisce a quell’insieme di attività poste in essere dall’Amministrazione finanziaria finalizzate a verificare l’esatto adempimento degli obblighi, formali e strumentali, e delle obbligazioni (d’imposta, tributarie, accessorie e connesse) gravanti sui contribuenti o su terzi, al fine di assicurare il concreto ed effettivo soddisfacimento dell’interesse pubblico, l’attuazione del prelievo e la repressione dei comportamenti illeciti eventualmente compiuti.

Dalla mancanza di una disposizione di carattere generale sulla partecipazione del contribuente, potrebbe affermarsi che questa sia consentita attraverso singoli strumenti partecipativi previsti da disposizioni fiscali di carattere specifico.

Il Legislatore prevede due diverse tipologie per la partecipazione del contribuente al procedimento tributario. Da un lato ci sono quelle forme di partecipazione di carattere “collaborativo” che collocano l’intervento del contribuente nel corso dell’attività istruttoria in funzione della raccolta di elementi conoscitivi da parte dell’Amministrazione: in tale ipotesi, il coinvolgimento del contribuente viene richiesto al solo fine di fornire elementi che lo stesso contribuente è tenuto a fornite sotto pena dell'irrogazione di sanzioni amministrative.

Una seconda tipologia di forme di partecipazione ha carattere “difensivo” e di norma si colloca nella fase procedimentale della decisione o, in ipotesi, dopo l’emanazione dell’atto finale, caratterizzandosi per la semplice facoltà di intervento del contribuente e per la previa comunicazione da parte dell’Amministrazione al contribuente delle conclusioni da questa provvisoriamente raggiunte.

Lo Statuto del Contribuente (L.212/2000) ha introdotto nell’ordinamento alcuni importanti istituti partecipativi, in chiave difensiva, nel rispetto del principio di buona fede e di collaborazione tra contribuente e amministrazione ( art. 10 bis, comma 6 L. 212/2000; art. 6 comma 5, L. 212/2000; art 38, comma 7 d.p.r. 600/1973; artt. 36 bis, comma 3 e 36 ter, comma 4, d.p.r. 600/1973).

Sempre in un’ottica difensiva si colloca l’art. 12, comma 7, L. 212/2000, che consente al contribuente di comunicare “osservazioni e richieste” entro sessanta giorni dal processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo.

Per la Corte di Giustizia UE (sentenza 18 dicembre 2008, C-349/07, Sopropè) l’esistenza di un diritto generalizzato al contraddittorio discende dal diritto di difesa che va tutelato anche nell’ambito del procedimento amministrativo. In particolare, “il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione”.

Secondo la giurisprudenza dell’UE, la violazione del contradditorio rende annullabile il provvedimento adottato “soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale provvedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (Corte di Giustizia, 3 luglio 2014, C-129/13 e C-130/13, Kamino).

L’art. 41 della Carta di Nizza prevede espressamente “il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei sui confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio”. Trattasi di norma attributiva di un vero e proprio diritto ad una “buona amministrazione” non solo direttamente azionabile, ma anche suscettibile di ricadute all’interno del diritto tributario non armonizzato (Iva, accise, dazi doganali), atteso che l’art. 1, L. 241/1990, come modificato dalla L. 15/2005, dichiara applicabili i principi di origine europea a tutti i procedimenti amministrativi nazionali, e dunque, anche a quelli di natura tributaria. E del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità ha evidenziato la necessità di interpretare il diritto nazionale in conformità al diritto unionale, affermando che “il principio generale del diritto comunitario secondo cui il soggetto destinatario di un atto della pubblica autorità suscettivo di produrre effetti pregiudiziali nella sua sfera giuridica, deve essere messo in condizione di contraddire prima di subire tali effetti, non può tollerare discriminazioni in relazione alla natura armonizzata o meno del tributo” ( Cass., 406/15).

Tutte le suddette fattispecie sono connotate da un comune denominatore, che è quello di essere dirette all’instaurazione del contraddittorio con il contribuente in un momento del procedimento intermedio tra la fase istruttoria e quella della decisione, con l’evidente scopo di consentire al contribuente di apportare elementi conoscitivi in funzione difensiva affinché l’ufficio li valuti al fine della decisione da assumere, ivi compresa una definizione concordata della pretesa.

 

 

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