Maria Mingione

Maria Mingione

Il quadro di “apertura” verso i diritti del contribuente che si trovi ad affrontare un atto impositivo illegittimo od infondato con la prospettiva di una revisione dello stesso da parte dell’amministrazione finanziaria ha riscontrato una rilevantissima quadratura nella prassi amministrativa. Al punto che, per quanto l’autotutela si sia continuata a qualificare come “potere” della parte pubblica, si è sempre più spesso parlato di un vero e proprio “dovere” di revisione.

L’annullamento in via di autotutela viene indicato come lo “strumento giuridico fondamentale per la realizzazione di quel particolare rilevante interesse che l’Amministrazione ha a che sia assicurata equità e trasparenza alla propria azione e siano evitate, ovvero eliminate, controversie nelle quali appare certa, o quanto meno probabile, la soccombenza dell’Amministrazione stessa.

Il decreto legislativo n. 219/2023 ha introdotto cambiamenti di grande rilevanza nell’ambito dell’autotutela tributaria, precedentemente disciplinata dal DM 37/1997, ora abrogato.

Il legislatore, infatti, ha inserito l’importante istituto all’interno dello Statuto del Contribuente (legge 212/2000, istituendo gli articoli 10-quater e 10-quinquies, in vigore dal 18 gennaio 2024, i quali disciplinano e riformano l’istituto dell’autotutela tributaria, distinguendola in obbligatoria e facoltativa.

L’articolo 10-quater disciplina l’autotutela obbligatoria: con questa disposizione viene sancito l’obbligo per l’Amministrazione finanziaria di annullare – in tutto o in parte – anche senza istanza del contribuente, gli atti di imposizione (o di rinunciarvi), anche in pendenza di giudizio o in presenza di atti definitivi, laddove sussistano casi di manifesta illegittimità dell’atto, previsti dallo stesso articolo.

Il nuovo articolo 10-quinquies dello Statuto del contribuente disciplina invece l’autotutela facoltativa.

In tale articolo è stabilito, che l’Amministrazione finanziaria, fuori dai casi previsti dall’articolo precedente, possa annullare in tutto o in parte gli atti di imposizione (ovvero rinunciare all’imposizione), anche senza istanza di parte, laddove riconosca una illegittimità o una infondatezza dell’atto o dell’imposizione, anche per un atto già divenuto definitivo o in pendenza di giudizio.

Per entrambi i casi di autotutela, il legislatore dispone anche in materia di responsabilità del funzionario, limitandola alle sole ipotesi di dolo.

Inoltre, a seguito della introduzione nello Statuto del contribuente dell’annullabilità e della nullità dell’atto tributario, dovrà valutarsi, ai fini dell’autotutela, l’esistenza di uno di tali vizi, ora previsti e regolati dagli articoli 7-bis e 7-ter della legge 212/2000.

Anche dal punto di vista del contenzioso tributario il legislatore ha apportato significative novità: le modifiche intervenute, infatti, hanno riguardato gli articoli 19 e 21 del Dlgs 546/1992.

In particolare, viene prevista, all’articolo 19, l’impugnabilità del rifiuto espresso o tacito sull’istanza di autotutela prevista dall’articolo 10-quater (autotutela obbligatoria) e l’impugnabilità del solo rifiuto espresso sull’istanza di autotutela prevista dall’articolo 10-quinquies (autotutela facoltativa).

Ai sensi del successivo articolo 21 dello stesso decreto, il ricorso avverso il rifiuto tacito – nei soli casi riconducibili all’autotutela obbligatoria – potrà essere presentato dopo il novantesimo giorno dalla proposizione dell’istanza di autotutela.

Dunque, nel caso dell’autotutela obbligatoria, se l’Amministrazione non si sia pronunciata in merito all’istanza di autotutela proposta dal contribuente, contro tale silenzio il contribuente potrà proporre ricorso, dopo 90 giorni dalla proposizione della stessa e fino a quando il diritto non si sia prescritto.

Contro il rifiuto espresso dell’istanza di annullamento in autotutela, invece, il contribuente potrà proporre ricorso entro il termine ordinario di 60 giorni dalla notificazione dello stesso.

Nel caso, invece, di istanza di autotutela facoltativa, a differenza della precedente, il contribuente potrà proporre ricorso solo contro il diniego espresso dell’Amministrazione finanziaria, impugnandolo entro il termine ordinario di 60 giorni; non potrà, dunque, proporre ricorso avverso il rifiuto tacito, e quindi in caso di silenzio dell’Amministrazione.

In conclusione, con l’abolizione dell’istituto della mediazione l’autotutela obbligatoria va a colmare il vuoto della necessità di una fase pre-processuale di riesame dell’atto, con la prospettiva successiva di un possibile contenzioso e con tutte le motivazioni esplicitate dall’una e dall’altra parte (cosa che non avviene per esempio nella procedura di accertamento con adesione).

 

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Nell’ambito del diritto amministrativo, l’autotutela viene a collocarsi nello snodo delicatissimo fra il potere amministrativo e il suo esercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento del privato, dall’altra.

L’autotutela consiste nel potere dell’amministrazione di “farsi ragione da sé” per le vie amministrative e salvo ogni sindacato giurisdizionale (art. 113 Cost.), si tratta, in altri termini, della possibilità, riconosciuta dall’ordinamento alla P.A., di rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra il provvedimento e il risultato cui essa mira, ovvero la realizzazione dell’interesse pubblico concreto per la tutela del quale il provvedimento è stato emanato.

Nel diritto amministrativo si distingue tra autotutela decisoria, che implica lo svolgimento di un’attività provvedimentale da parte della pubblica amministrazione diretta al riesame di provvedimenti già adottati, ovvero, consiste nel potere della stessa autorità che ha adottato l’atto originario o di un’autorità diversa di rivalutare le situazioni di fatto e di diritto poste alla base di un dato provvedimento amministrativo; trattasi di un potere generale, di natura discrezionale, manifestazione dell’autoritarietà attribuita alla pubblica amministrazione per la cura dell’interesse pubblico, che, mediante l’adozione di atti di secondo grado, può incidere unilateralmente sulla sfera giuridica dei relativi destinatari. I predetti atti possono assumere, a seconda dell’esito, carattere demolitorio (se espressione del potere di annullamento d’ufficio o revoca) o conservativo (qualora conducano alla conferma, convalida, ratifica o sanatoria in senso stretto del precedente provvedimento).

Diversamente, l’autotutela esecutiva, si identifica con l’attività diretta all’esecuzione coattiva degli atti provvedimentali ed è oggi espressamente disciplinata dagli artt. 21 ter e 21 quater della Legge 241/1990 che distinguono, inoltre, l’attitudine provvedimento ad essere attuato coattivamente (cd. esecutorietà) dall’attitudine dello stesso ad essere portato immediatamente ad esecuzione (cd. esecutività).

Una questione problematica attiene alla configurabilità della fattispecie dell’autotutela “doverosa”, ossia i casi in cui la pubblica amministrazione sia obbligata a riesaminare gli atti da essa emanati senza poter compiere valutazioni di carattere discrezionale.

V’è da chiedersi, se siano configurabili ipotesi in cui tale potere perda i suoi naturali tratti di discrezionalità, diventando espressione di un’attività vincolata dall’accertamento dell’illegittimità dell’atto (Corte Cost., 22 marzo 2000, n. 75). In tal guisa, la Corte ha riconosciuto al legislatore la facoltà di optare tra forme di autotutela a contenuto discrezionale e forme a contenuto doveroso, purché sia assicurato il rispetto dei princìpi di imparzialità, di efficienza, di legalità dell’azione amministrativa, di ragionevolezza e di corretto bilanciamento tra i beni costituzionali.

Le ipotesi tradizionalmente prospettate sono diverse: ottemperanza al giudicato ordinario che abbia incidentalmente accertato l’illegittimità dell’atto amministrativo; l’annullamento di un atto dipendente che consegua all’annullamento (giurisdizionale o amministrativo) dell’atto presupposto; le ipotesi di decadenza del beneficio economico ove emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione; casi di provvedimenti consequenziali all’adozione di un’interdittiva antimafia; le ipotesi di annullamento del titolo edilizio in sanatoria illegittimo; nei casi di risoluzione dei contratti pubblici ai sensi dell’art. 122 d.lgs 36/2023, il quale prevede in un’unica disposizione, sia ipotesi di risoluzione discrezionale al comma 1 (può disporre), sia ipotesi in cui la risoluzione si atteggia come un atto dovuto al comma 2 (le stazioni appaltanti devono risolvere).

In conclusione, la persistente vaghezza definitoria del legislatore, il proliferare di fattispecie specifiche di autotutela distinte da quelle previste all’interno della L. n. 241/1990, nonché lo scarso coordinamento tra le stesse e gli istituti di carattere generale rendono il tema della doverosità o meno del potere di riesame uno di quelli più controversi nel diritto amministrativo.

 

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Una recente sentenza della Cassazione (18448/2015) affronta nuovamente il tema della rilevabilità d'ufficio degli atti di accertamento affetti da nullità.

L’invalidità dell’atto impugnato per mancanza degli elementi essenziali deve essere eccepita dal contribuente mediante ricorso giurisdizionale, ritualmente proposto nel termine di sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto stesso. In difetto, l’atto, seppure affetto da un vizio di nullità, si consolida, divenendo definitivo, e legittima l’Amministrazione finanziaria alla riscossione.

Il caso specifico muove dall’impugnazione di una cartella di pagamento, mediante la quale il contribuente contestava il versamento degli importi richiesti dall’Amministrazione Finanziaria con precedenti avvisi di accertamento non impugnati e, quindi, divenuti definitivi.

Il contribuente sosteneva, in particolare, che tali avvisi, essendo stati sottoscritti con firma illeggibile, fossero affetti da un vizio di nullità strutturale (ex articolo 21-septies della legge 241/1990).

La Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso con sentenza che veniva riformata in appello. Avverso la sentenza di secondo grado, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione.

Con la sentenza in esame, la Cassazione – nel condividere la tesi dell’Agenzia – ha chiarito che i vizi di invalidità dell’atto impugnato costituiscono “eccezioni in senso stretto”, per cui non sono rilevabili d’ufficio dal giudice, ma devono essere fatti valere soltanto dal contribuente in sede di ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

La Cassazione, muovendo dal presupposto della specialità del diritto tributario rispetto al diritto civile e a quello amministrativo, ha innanzitutto ricordato che l’articolo 42, comma 3, del Dpr 600/1973, nel prevedere che “l’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all'ultimo periodo del secondo comma”, contempla un’unica ipotesi di nullità nell’ambito della quale sono indifferentemente raggruppati i vizi di natura formale e sostanziale degli atti tributari e che il successivo articolo 61, comma 2, del medesimo decreto stabilisce che “la nullità dell’accertamento ai sensi del terzo comma dell’art. 42…, e in genere per difetto di motivazione, deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”.

Inoltre, la Corte di legittimità ha ribadito che l’oggetto del giudizio tributario è circoscritto ai motivi di ricorso fatti valere dal contribuente e può essere modificato esclusivamente con la presentazione di motivi aggiunti “nel solo caso di ‘deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione” (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19337 del 22/09/2011).

Più precisamente, secondo la Cassazione, il vizio di nullità dell’atto tributario va inteso, sul piano processuale, come vizio di annullabilità, con la conseguenza che l’invalidità dell’atto non è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ma va eccepita dal contribuente in sede di ricorso alla Commissione tributaria provinciale da proporre entro il termine di sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato (trattasi di una eccezione “in senso stretto”). In difetto di tempestiva impugnazione, “il provvedimento tributario viziato da ‘nullità’ si consolida, rendendo definitivo il rapporto obbligatorio sottostante e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta”.

I principi di diritto enunciati dalla Cassazione con la sentenza n. 18448/2015, che si riferiscono al caso di atti che presentano vizi di sottoscrizione, di motivazione ovvero di mancata allegazione di documenti citati, possono ritenersi estendibili ai contenziosi concernenti gli atti sottoscritti dagli incaricati di funzioni dirigenziali. A tal proposito, si può infatti affermare che le eccezioni relative agli atti sottoscritti dagli incaricati non possono essere proposte con riferimento agli atti non impugnati entro il termine di decadenza, a quelli impugnati senza dedurre un vizio riconducibile alla legittima investitura del funzionario incaricato di mansioni dirigenziali, nonché ai giudizi ormai definiti con sentenza passata in giudicato. In particolare, tali eccezioni non possono essere sollevate per la prima volta dal contribuente successivamente alla proposizione del ricorso né sono rilevabili d’ufficio dal giudice.

Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo d’instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (Cassazione n. 25756/2014).

 

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La trattazione del tema relativo alla nullità del provvedimento amministrativo impone un preventivo inquadramento della categoria giuridica della invalidità degli atti, anche al fine di evidenziarne la peculiare conformazione assunta nell’ambito del sistema del diritto amministrativo, caratterizzato dall’esercizio di un potere autoritativo da parte della pubblica amministrazione nei confronti del privato.

In termini generali, l’invalidità indica la difformità dell’atto rispetto al modello normativamente previsto, cui consegue l’inefficacia definitiva dell’atto medesimo, quale specifica sanzione approntata dall’ordinamento a fronte dell’inosservanza delle norme regolative della fattispecie. All’interno di tale categoria, sono ricondotte la nullità, che determina l’inefficacia ab origine dell’atto, e l’annullabilità, che implica l’inidoneità dell’atto a produrre effetti solo a seguito e in ragione della pronuncia giudiziale accertativa dell’invalidità e costitutiva dell’effetto caducante.

L’art. 21-septies reca la codificazione delle cause di nullità del provvedimento amministrativo, facendo riferimento alla mancanza degli elementi essenziali, al vizio del difetto assoluto di attribuzione, all’adozione in violazione o elusione del giudicato e, infine, a tutti gli altri casi in cui la legge qualifica espressamente l’atto come nullo.

Ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, trova applicazione il criterio della causa petendi, che fa riferimento alla effettiva natura della situazione giuridica soggettiva fatta valere: giudice amministrativo in caso di interesse legittimo e giudice ordinario in caso di diritto soggettivo.

La previsione dell’azione di nullità nell’ambito delle norme sul processo amministrativo (art. 31, co. 4 c.p.a.) supera definitivamente le ricostruzioni volte a individuare il giudice competente sulla base della gravità del vizio di invalidità, le quali limitavano la cognizione del giudice amministrativo alle ipotesi di annullabilità del provvedimento, riconoscendo il giudice ordinario come giudice naturale della nullità.

I poteri del giudice ordinario risultano stabiliti dagli artt. 4 e 5 L.A.C., che tracciano i cd. limiti interni di tale giurisdizione rispetto all’attività dell’amministrazione. L’art. 4, co. 1 definisce i poteri di cognizione del giudice ordinario, prevedendo che questi può “conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”. L’accertamento sull’atto amministrativo da parte del giudice ordinario risulta, quindi, limitato alla rilevanza del medesimo assunta per il giudizio in corso, con la conseguenza che la relativa pronuncia non ha efficacia erga omnes, ma vale soltanto per il caso deciso e inter partes. L’atto amministrativo oggetto di accertamento, infatti, non rileva in sé, quanto piuttosto per gli effetti che produce, per la sua idoneità a determinare una lesione del diritto.

Il comma 2 della medesima disposizione, poi, i poteri di decisione del giudice ordinario, escludendo che questi possa revocare o modificare l’atto amministrativo, ove ne ravvisi l’illegittimità. Tali poteri spettano all’amministrazione, che a fronte di una pronuncia giurisdizionale, ha l’obbligo di conformarsi al giudicato, pena l’azionabilità del giudizio di ottemperanza ex artt. 112 e ss. c.p.a.

Dall’art. 5 L.A.C. si ricava, infine, il potere del giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi. La disciplina di riferimento dell’azione declaratoria della nullità è contenuta nell’art. 31, co. 4 c.p.a. Dalla formulazione della norma si ricava la qualificazione della azione di nullità come azione di accertamento. La pronuncia del giudice non appare volta a verificare la spettanza del bene, ma unicamente ad accertare la patologia che inficia il provvedimento amministrativo, all’esito di un giudizio sull’atto e non sul rapporto.

L’analisi fin qui condotta mostra come nel settore del diritto amministrativo la categoria della nullità assuma una conformazione peculiare, relativamente alla natura specifica del provvedimento amministrativo, il quale costituisce espressione di un pubblico potere e mira al perseguimento di pubblici interessi e con riferimento alla ripartizione della giurisdizione nonché alle concrete modalità di operatività del vizio innanzi all’autorità giudiziaria.

 

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Nel sistema sanzionatorio tributario, riformato con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del D.Lgs. n. 158 del 2015, di attuazione della legge delega fiscale n. 23 dell’11 marzo 2014., il principio di legalità è stato mutuato dal diritto penale. L’art. 3 del D.Lgs. n. 472/1997 rubricato “Principio di legalità”, infatti, costituisce una sintesi tra il contenuto degli artt. 25 Cost. e 2 c.p.

In particolare, l’art. 3, comma 1, secondo cui “nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione” richiama il secondo comma dell’art. 25 Cost., che stabilisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Il regime delle sanzioni tributarie, al pari della normativa regolatrice delle sanzioni amministrative, è retto dal principio di legalità, secondo il quale nessun soggetto (contribuente) può essere soggetto ad una sanzione tributaria per un fatto e/o, comportamento sia esso sostanziale o formale, il cui compimento non sia considerato punibile dalla legge vigente.

Tale previsione rappresenta la massima manifestazione dell'efficacia temporale delle norme le quali possono esplicare effetti esclusivamente per il futuro, ovvero successivamente alla loro entrata in vigore ed è strettamente legata a quanto già previsto in ambito penale dall' articolo 2 c.p.

Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione è abrogata, il contribuente non sarà più punibile, mentre se le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applicherà la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo (comma 2 e 3 dell' articolo 3 del D. Lgs. 472/97).

In buona sostanza con tale previsione si formalizza anche in ambito tributario quanto già vigente del rito penale, ovvero il cd. principio del favor rei, in forza del quale al soggetto trasgressore si applica sempre la sanzione più favorevole, ancorché emanata successivamente alla commissione del fatto che integra la violazione.

In deroga al divieto di retroattività dell' efficacia della norma tributaria, nell’ambito delle sanzioni tributarie, sono previste due fattispecie in cui una sopravvenuta modifica della normativa esplica effetti in ordine a provvedimenti irrogativi di sanzioni già emessi dall' Ente impositore.

Il primo caso è regolamentato dal comma 2, dell' articolo 3 D. Lgs. 472/1997 in virtù del quale salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile, ulteriormente statuendo che ove la sanzione fosse già stata stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, non essendo, però, ammissibile alcuna ripetizione di quanto nelle more pagato.

Il secondo caso di deroga del principio di favor rei al divieto di retroattività della legge tributaria è, invece, previsto al successivo comma 3, del medesimo articolo, secondo il quale se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diverse, si applica la legge più favorevole.

Tale fattispecie attiene, quindi, al diverso caso della rideterminazione e non abrogazione della sanzione tributaria, avente ad oggetto il quantum dell’importo irrogato ovvero il presupposto, con la conseguenza che il contribuente in ogni caso beneficerà della riduzione, sia nel caso in cui al momento del comportamento sanzionato la norma vigente fosse più afflittiva (che quindi non troverà applicazione) che nel caso in cui fosse più tenue (nel qual caso manterrà la propria efficacia).

Tale conseguenza muove dalla ratio del legislatore secondo cui non si è inteso rimuovere quella fattispecie sanzionatoria dal panorama giuridico ma solo rimodularne gli effetti, con conseguente stabilità di eventuali sanzioni irrogate e divenute definitive.

L’esame del principio del favor rei porta a concludere che la sua applicazione nel nostro ordinamento, in particolare anche all’ambito dei procedimenti amministrativi tributari, è di certo apprezzabile nella parte in cui pone il contribuente in una posizione di parità concettuale tra coloro i quali si trovano ad aver commesso la stessa violazione, subendo eguali conseguenze, nel rispetto del principio di uguaglianza.

 

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