Mercoledì, 03 Luglio 2024 03:24
Maria Mingione

Maria Mingione

 

Una recente sentenza della Cassazione (18448/2015) affronta nuovamente il tema della rilevabilità d'ufficio degli atti di accertamento affetti da nullità.

L’invalidità dell’atto impugnato per mancanza degli elementi essenziali deve essere eccepita dal contribuente mediante ricorso giurisdizionale, ritualmente proposto nel termine di sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto stesso. In difetto, l’atto, seppure affetto da un vizio di nullità, si consolida, divenendo definitivo, e legittima l’Amministrazione finanziaria alla riscossione.

Il caso specifico muove dall’impugnazione di una cartella di pagamento, mediante la quale il contribuente contestava il versamento degli importi richiesti dall’Amministrazione Finanziaria con precedenti avvisi di accertamento non impugnati e, quindi, divenuti definitivi.

Il contribuente sosteneva, in particolare, che tali avvisi, essendo stati sottoscritti con firma illeggibile, fossero affetti da un vizio di nullità strutturale (ex articolo 21-septies della legge 241/1990).

La Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso con sentenza che veniva riformata in appello. Avverso la sentenza di secondo grado, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione.

Con la sentenza in esame, la Cassazione – nel condividere la tesi dell’Agenzia – ha chiarito che i vizi di invalidità dell’atto impugnato costituiscono “eccezioni in senso stretto”, per cui non sono rilevabili d’ufficio dal giudice, ma devono essere fatti valere soltanto dal contribuente in sede di ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

La Cassazione, muovendo dal presupposto della specialità del diritto tributario rispetto al diritto civile e a quello amministrativo, ha innanzitutto ricordato che l’articolo 42, comma 3, del Dpr 600/1973, nel prevedere che “l’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all'ultimo periodo del secondo comma”, contempla un’unica ipotesi di nullità nell’ambito della quale sono indifferentemente raggruppati i vizi di natura formale e sostanziale degli atti tributari e che il successivo articolo 61, comma 2, del medesimo decreto stabilisce che “la nullità dell’accertamento ai sensi del terzo comma dell’art. 42…, e in genere per difetto di motivazione, deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”.

Inoltre, la Corte di legittimità ha ribadito che l’oggetto del giudizio tributario è circoscritto ai motivi di ricorso fatti valere dal contribuente e può essere modificato esclusivamente con la presentazione di motivi aggiunti “nel solo caso di ‘deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione” (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19337 del 22/09/2011).

Più precisamente, secondo la Cassazione, il vizio di nullità dell’atto tributario va inteso, sul piano processuale, come vizio di annullabilità, con la conseguenza che l’invalidità dell’atto non è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ma va eccepita dal contribuente in sede di ricorso alla Commissione tributaria provinciale da proporre entro il termine di sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato (trattasi di una eccezione “in senso stretto”). In difetto di tempestiva impugnazione, “il provvedimento tributario viziato da ‘nullità’ si consolida, rendendo definitivo il rapporto obbligatorio sottostante e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta”.

I principi di diritto enunciati dalla Cassazione con la sentenza n. 18448/2015, che si riferiscono al caso di atti che presentano vizi di sottoscrizione, di motivazione ovvero di mancata allegazione di documenti citati, possono ritenersi estendibili ai contenziosi concernenti gli atti sottoscritti dagli incaricati di funzioni dirigenziali. A tal proposito, si può infatti affermare che le eccezioni relative agli atti sottoscritti dagli incaricati non possono essere proposte con riferimento agli atti non impugnati entro il termine di decadenza, a quelli impugnati senza dedurre un vizio riconducibile alla legittima investitura del funzionario incaricato di mansioni dirigenziali, nonché ai giudizi ormai definiti con sentenza passata in giudicato. In particolare, tali eccezioni non possono essere sollevate per la prima volta dal contribuente successivamente alla proposizione del ricorso né sono rilevabili d’ufficio dal giudice.

Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo d’instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (Cassazione n. 25756/2014).

 

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La trattazione del tema relativo alla nullità del provvedimento amministrativo impone un preventivo inquadramento della categoria giuridica della invalidità degli atti, anche al fine di evidenziarne la peculiare conformazione assunta nell’ambito del sistema del diritto amministrativo, caratterizzato dall’esercizio di un potere autoritativo da parte della pubblica amministrazione nei confronti del privato.

In termini generali, l’invalidità indica la difformità dell’atto rispetto al modello normativamente previsto, cui consegue l’inefficacia definitiva dell’atto medesimo, quale specifica sanzione approntata dall’ordinamento a fronte dell’inosservanza delle norme regolative della fattispecie. All’interno di tale categoria, sono ricondotte la nullità, che determina l’inefficacia ab origine dell’atto, e l’annullabilità, che implica l’inidoneità dell’atto a produrre effetti solo a seguito e in ragione della pronuncia giudiziale accertativa dell’invalidità e costitutiva dell’effetto caducante.

L’art. 21-septies reca la codificazione delle cause di nullità del provvedimento amministrativo, facendo riferimento alla mancanza degli elementi essenziali, al vizio del difetto assoluto di attribuzione, all’adozione in violazione o elusione del giudicato e, infine, a tutti gli altri casi in cui la legge qualifica espressamente l’atto come nullo.

Ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, trova applicazione il criterio della causa petendi, che fa riferimento alla effettiva natura della situazione giuridica soggettiva fatta valere: giudice amministrativo in caso di interesse legittimo e giudice ordinario in caso di diritto soggettivo.

La previsione dell’azione di nullità nell’ambito delle norme sul processo amministrativo (art. 31, co. 4 c.p.a.) supera definitivamente le ricostruzioni volte a individuare il giudice competente sulla base della gravità del vizio di invalidità, le quali limitavano la cognizione del giudice amministrativo alle ipotesi di annullabilità del provvedimento, riconoscendo il giudice ordinario come giudice naturale della nullità.

I poteri del giudice ordinario risultano stabiliti dagli artt. 4 e 5 L.A.C., che tracciano i cd. limiti interni di tale giurisdizione rispetto all’attività dell’amministrazione. L’art. 4, co. 1 definisce i poteri di cognizione del giudice ordinario, prevedendo che questi può “conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”. L’accertamento sull’atto amministrativo da parte del giudice ordinario risulta, quindi, limitato alla rilevanza del medesimo assunta per il giudizio in corso, con la conseguenza che la relativa pronuncia non ha efficacia erga omnes, ma vale soltanto per il caso deciso e inter partes. L’atto amministrativo oggetto di accertamento, infatti, non rileva in sé, quanto piuttosto per gli effetti che produce, per la sua idoneità a determinare una lesione del diritto.

Il comma 2 della medesima disposizione, poi, i poteri di decisione del giudice ordinario, escludendo che questi possa revocare o modificare l’atto amministrativo, ove ne ravvisi l’illegittimità. Tali poteri spettano all’amministrazione, che a fronte di una pronuncia giurisdizionale, ha l’obbligo di conformarsi al giudicato, pena l’azionabilità del giudizio di ottemperanza ex artt. 112 e ss. c.p.a.

Dall’art. 5 L.A.C. si ricava, infine, il potere del giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi. La disciplina di riferimento dell’azione declaratoria della nullità è contenuta nell’art. 31, co. 4 c.p.a. Dalla formulazione della norma si ricava la qualificazione della azione di nullità come azione di accertamento. La pronuncia del giudice non appare volta a verificare la spettanza del bene, ma unicamente ad accertare la patologia che inficia il provvedimento amministrativo, all’esito di un giudizio sull’atto e non sul rapporto.

L’analisi fin qui condotta mostra come nel settore del diritto amministrativo la categoria della nullità assuma una conformazione peculiare, relativamente alla natura specifica del provvedimento amministrativo, il quale costituisce espressione di un pubblico potere e mira al perseguimento di pubblici interessi e con riferimento alla ripartizione della giurisdizione nonché alle concrete modalità di operatività del vizio innanzi all’autorità giudiziaria.

 

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Nel sistema sanzionatorio tributario, riformato con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del D.Lgs. n. 158 del 2015, di attuazione della legge delega fiscale n. 23 dell’11 marzo 2014., il principio di legalità è stato mutuato dal diritto penale. L’art. 3 del D.Lgs. n. 472/1997 rubricato “Principio di legalità”, infatti, costituisce una sintesi tra il contenuto degli artt. 25 Cost. e 2 c.p.

In particolare, l’art. 3, comma 1, secondo cui “nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione” richiama il secondo comma dell’art. 25 Cost., che stabilisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Il regime delle sanzioni tributarie, al pari della normativa regolatrice delle sanzioni amministrative, è retto dal principio di legalità, secondo il quale nessun soggetto (contribuente) può essere soggetto ad una sanzione tributaria per un fatto e/o, comportamento sia esso sostanziale o formale, il cui compimento non sia considerato punibile dalla legge vigente.

Tale previsione rappresenta la massima manifestazione dell'efficacia temporale delle norme le quali possono esplicare effetti esclusivamente per il futuro, ovvero successivamente alla loro entrata in vigore ed è strettamente legata a quanto già previsto in ambito penale dall' articolo 2 c.p.

Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione è abrogata, il contribuente non sarà più punibile, mentre se le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applicherà la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo (comma 2 e 3 dell' articolo 3 del D. Lgs. 472/97).

In buona sostanza con tale previsione si formalizza anche in ambito tributario quanto già vigente del rito penale, ovvero il cd. principio del favor rei, in forza del quale al soggetto trasgressore si applica sempre la sanzione più favorevole, ancorché emanata successivamente alla commissione del fatto che integra la violazione.

In deroga al divieto di retroattività dell' efficacia della norma tributaria, nell’ambito delle sanzioni tributarie, sono previste due fattispecie in cui una sopravvenuta modifica della normativa esplica effetti in ordine a provvedimenti irrogativi di sanzioni già emessi dall' Ente impositore.

Il primo caso è regolamentato dal comma 2, dell' articolo 3 D. Lgs. 472/1997 in virtù del quale salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile, ulteriormente statuendo che ove la sanzione fosse già stata stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, non essendo, però, ammissibile alcuna ripetizione di quanto nelle more pagato.

Il secondo caso di deroga del principio di favor rei al divieto di retroattività della legge tributaria è, invece, previsto al successivo comma 3, del medesimo articolo, secondo il quale se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diverse, si applica la legge più favorevole.

Tale fattispecie attiene, quindi, al diverso caso della rideterminazione e non abrogazione della sanzione tributaria, avente ad oggetto il quantum dell’importo irrogato ovvero il presupposto, con la conseguenza che il contribuente in ogni caso beneficerà della riduzione, sia nel caso in cui al momento del comportamento sanzionato la norma vigente fosse più afflittiva (che quindi non troverà applicazione) che nel caso in cui fosse più tenue (nel qual caso manterrà la propria efficacia).

Tale conseguenza muove dalla ratio del legislatore secondo cui non si è inteso rimuovere quella fattispecie sanzionatoria dal panorama giuridico ma solo rimodularne gli effetti, con conseguente stabilità di eventuali sanzioni irrogate e divenute definitive.

L’esame del principio del favor rei porta a concludere che la sua applicazione nel nostro ordinamento, in particolare anche all’ambito dei procedimenti amministrativi tributari, è di certo apprezzabile nella parte in cui pone il contribuente in una posizione di parità concettuale tra coloro i quali si trovano ad aver commesso la stessa violazione, subendo eguali conseguenze, nel rispetto del principio di uguaglianza.

 

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L’art. 97 comma 2 della Cost. prevede che i pubblici uffici siano organizzati secondo disposizioni di legge, in modo tale che siano assicurati i principi di buon andamento e di imparzialità. Tale norma fonda a livello costituzionale il principio di legalità cui deve essere sottoposta non solo l’organizzazione bensì, in senso più ampio, tutta l’attività amministrativa.

Il rilievo costituzionale del principio di legalità si ricava, inoltre, indirettamente anche dagli artt. 24 e 113 Cost., norme che assoggettano l’attività amministrativa al controllo dell’autorità giudiziaria. Tale controllo, difatti, non potrà che vertere sulla verifica di un eventuale contrasto con norme di legge, la cui osservanza è pertanto imposta alla pubblica amministrazione già a livello costituzionale.

Il principio trova, in ogni caso, esplicita menzione nella normazione primaria, all’art. 1 L. 241/1990, secondo il quale l’attività amministrativa deve perseguire i fini stabiliti dalla legge.

Il principio di legalità implica innumerevoli corollari sul piano applicativo, tra i quali assumono rilievo i principi di tipicità e di nominatività dei provvedimenti amministrativi.

E’ necessario osservare, tuttavia, che la norma di legge che fonda il potere dell’amministrazione e che individua la finalità da perseguire, nonché lo schema procedimentale da utilizzare, non sempre riconosce all’ente procedente gli stessi margini di scelta.

A tal proposito, si distingue tra provvedimenti vincolati e provvedimenti discrezionali.

Per quanto attiene ai primi, il rapporto tra legge e provvedimento sottende un’accezione di legalità intesa in senso forte, considerato che la prima disciplina in modo rigoroso e puntuale il contenuto che dovrà avere il secondo, non lasciando all’amministrazione alcuno spazio per scelte differenti.

In tali casi, il contenuto dispositivo del provvedimento, caratterizzato da una motivazione semplificata, si limiterà a dare conto della ricognizione dei presupposti di fatto individuati dalla legge, seguendo pedissequamente lo schema procedimentale da questa previsto.

Il contenuto predeterminato del provvedimento consente al giudice un sindacato pieno, potendo quest’ultimo verificare se l’atto emanato sia stato rispettoso della rigida previsione normativa, ed anche sostituirsi all’amministrazione in caso di inerzia.

L’art. 31, co. 3 c.p.a., infatti, nel disciplinare l’azione avverso il silenzio-inadempimento prevede che il giudice possa pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio “quando si tratta di attività vincolata”.

Per quanto attiene, invece, ai provvedimenti discrezionali, essi corrispondono ad una accezione debole di legalità. Ed invero, per tali atti la legge, dopo aver attribuito il potere all’amministrazione e stabilito l’interesse pubblico da perseguire, consente all’organo procedente la facoltà di scegliere, tra più comportamenti leciti, quello ritenuto più opportuno per il perseguimento dell’interesse pubblico affidato alla sua cura. All’amministrazione la legge, talvolta, concede la libertà di scegliere se emettere o meno il provvedimento, in altri casi, invece, permette di stabilire il momento più opportuno per la sua emanazione

In ogni caso, si osserva come il provvedimento discrezionale, a differenza di quello vincolato, non si limiti ad applicare regole di legittimità poste dalla legge attributiva del potere e sindacabili dal giudice. Nell’esercizio della facoltà di scelta, invero, l’amministrazione applica anche regole di merito, ovvero regole non giuridiche di opportunità e convenienza che orientano l’azione nel perseguire l’interesse pubblico.

Tale area, non soggiacendo al principio di legalità, è sottratta al controllo giudiziale e costituisce un limite invalicabile al sindacato del giudice.

 

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Il Decreto legislativo 30 dicembre 2023 n. 220, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 3 gennaio 2024, n. 2 ed in vigore dal 4 gennaio 2024, reca le nuove regole del contenzioso tributario, in attuazione dell’articolo 19 della Legge 09 agosto 2023, n. 111, “Delega al Governo per la riforma fiscale”.

La normativa contenuta nel D.Lgs. 220/2023 è ricca di nuovi contenuti in merito alle regole sulla notificazione dell’atto presupposto, sull’autotutela, sull’accertamento con adesione e sul contraddittorio anticipato.

Come regola generale diviene applicabile a tutti gli atti impugnabili dinanzi ai Giudici tributari il principio del contraddittorio generalizzato a norma del quale tutti gli atti autonomamente impugnabili dinanzi alla Giurisdizione Tributaria sono preceduti, a pena di annullabilità, da un “contradditorio informato ed effettivo” ai sensi dell’art. 6-bis della l. 27.7.2000, n. 212. Questa fase va di fatto a sostituire quella del reclamo e mediazione che, non essendo mai stata strutturata dinanzi a un terzo ma condotta come mero riesame da parte degli Uffici, era già di fatto una fase amministrativa, anche se regolamentata nell’ambito delle norme sul processo.

Secondo questo nuovo percorso, l’Amministrazione Finanziaria comunica obbligatoriamente al contribuente lo schema di provvedimento di accertamento assegnandogli un termine non inferiore a 60 giorni per proporre le proprie controdeduzioni. Al termine si può annullare lo schema di provvedimento, chiudendo la fase istruttoria, ovvero emettere l’avviso di accertamento, se le ragioni addotte non sono ritenute valide in tutto o in parte, dando conto delle osservazioni fatte dal contribuente sulle quali si innestano le motivazioni in relazione a quanto non è stato accolto dall’ufficio.

Al contribuente insoddisfatto non resta altro che proporre il ricorso (che non è più attivato sotto la forma dei reclamo e mediazione poiché l’art. 17-bis del d.lgs. 31.12.1992, n. 546, è stato abrogato) confidando nell’accoglimento delle proprie ragioni con l’annullamento della pretesa fiscale.

Sul piano dell’ordinamento giudiziario tributario, sono stati ridenominati gli organi di giustizia tributaria in Corti Tributarie di primo e di secondo grado; è stato introdotto un ruolo autonomo e professionale della Magistratura Tributaria con la previsione di magistrati tributari reclutati tramite concorso per esami e la facoltà per gli attuali giudici togati, di transitare definitivamente e a tempo pieno nella giurisdizione tributaria speciale.

Sul piano processuale, invece, è stato previsto che le controversie di modico valore siano devolute ad un giudice monocratico; è stata potenziata la conciliazione giudiziale, è stato superato il divieto di prova testimoniale, è stato consolidato il principio logico – argomentativo dell’onere della prova a carico dell’ente impositore, con maggiore responsabilità dei funzionari responsabili degli enti in caso di rifiuto ingiustificato delle istanze di reclamo e delle proposte di definizione formulate dai contribuenti, sollecitandoli ad adottare, attraverso un riesame del proprio operato, provvedimenti di autotutela finalizzati a evitare, se possibile, la condanna al pagamento delle spese processuali; è stato modificato il procedimento cautelare di sospensione dell’esecuzione dell’atto, è stata disciplinata in modo più organico e preciso la c.d. video-udienza.

È stato, inoltre, potenziato il giudizio di legittimità, con la creazione in Cassazione di una sezione civile deputata esclusivamente alla trattazione delle controversie tributarie, nonché la previsione di una definizione agevolata dei soli giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di Cassazione.

Il Decreto Legislativo n. 219 del 30 dicembre 2023 ha introdotto significative novità in materia di autotutela tributaria, apportando modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente (Legge del 27 luglio del 2000, n. 212) con l’inserimento dell’esercizio del potere di autotutela obbligatoria (art. 10-quater) e dell’esercizio del potere di autotutela facoltativa (art. 10-quinquies).

In sintesi, con la riforma della giustizia tributaria e del processo tributario, è stata data attuazione agli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, incentrati sul miglioramento della qualità delle sentenze tributarie e sulla riduzione del contenzioso in Corte di Cassazione, con la finalità di garantire la certezza del diritto.

 

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