Mercoledì, 03 Luglio 2024 05:52
Maria Mingione

Maria Mingione

 

La conferenza dei servizi è stata concepita dal Legislatore del 1990 quale generale strumento di concentrazione, in un unico contesto logico e temporale, delle valutazioni e delle posizioni delle diverse amministrazioni portatrici degli interessi pubblici rilevanti in un dato procedimento amministrativo.

La questione trae origine dalla circostanza per cui l’ambito applicativo dell’art. 17 bis (silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche) sembra coincidere con le ipotesi di conferenza di servizi obbligatoria (decisoria).

L’art. 17 bis della L. 241/1990 stabilisce che, “nei casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, al fine di adottare provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre PP.AA., le amministrazioni devono comunicare il proprio assenso nel termine di trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, con la relativa documentazione, da parte dell’amministrazione procedente. Decorso inutilmente il suddetto termine di trenta giorni, che può essere interrotto qualora l’amministrazione manifesti motivate esigenze istruttorie, l’atto di assenso si intende acquisito”.

Il descritto meccanismo di silenzio-assenso tra Amministrazioni pubbliche e tra Amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici si applica altresì nei casi in cui sia prevista l’acquisizione di atti di assenso, nulla osta, pareri da parte di PP.AA. preposte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del territorio, dei beni culturali, della salute dei cittadini. In tali ipotesi, ove le specifiche disposizioni di Legge non prevedano un termine diverso, il termine entro cui rendere l’atto di assenso è pari a novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’Amministrazione procedente.

In proposito, il Consiglio di Stato si è interrogato circa l’opportunità di ricorrere alla conferenza di servizi anche ove sia possibile applicare lo strumento di cui all’art. 17 bis della L.241/1990. Ci si è chiesto, pertanto, se sia utile anche in termini di economicità dell’azione amministrativa, ricorrere allo strumento della conferenza di servizi e non, invece, applicare direttamente il nuovo art. 17 bis della L.241/1990.

Il consesso, al fine di risolvere le indicate questioni controverse, ha ritenuto di dover accordare preferenza al criterio in virtù del quale l’art. 17 bis troverebbe applicazione ove l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso da parte di una sola altra Amministrazione, mentre, nel caso sia necessario acquisire una pluralità di assensi, sarebbe auspicabile ricorrere alla conferenza di servizi.

I Giudici di Palazzo Spada, osservano, tuttavia, che allo scopo di estendere l’ambito applicativo dell’art. 17 bis, il quale, rispetto alla conferenza di servizi, si presenta come uno strumento di più agile utilizzo, si potrebbe, comunque, dare priorità all’applicazione del medesimo, anche in presenza di più assensi provenienti da diverse PP.AA.; in tal senso, la formazione del silenzio-assenso secondo lo schema dell’art. 17 bis permetterebbe di prevenire la necessità di ricorrere alla conferenza di servizi. Quest’ultima, dovrebbe essere necessariamente convocata ove il silenzio-assenso non si sia formato per effetto del dissenso manifestato dalle Amministrazioni; il superamento del suddetto dissenso, infatti, potrebbe avvenire solo mediante il ricorso alla conferenza.

Nello specifico, il Collegio, chiarisce che, pur essendoci un’apparente identità tra il richiamato art. 17 bis e la disciplina della conferenza di servizi, in specie quella asincrona, diverso è il regime del superamento dei dissensi, previsto, rispettivamente, dall’art. 17 bis, comma 2, e dall’art. 14 quinquies.

Entrambe le disposizioni, infatti, attribuiscono la competenza ad adottare la decisione finale al Presidente del Consiglio dei Ministri, ma, nell’ambito della conferenza dei servizi, si registra la sussistenza di maggiori garanzie procedimentali e, di conseguenza, di una più forte complessità, anche in attuazione del principio di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni.

 

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L’esame del principio d’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, e dei problemi interpretativi che esso solleva in ordine alla sua esistenza e al fondamento dogmatico, è collegato alle caratteristiche essenziali dell’obbligazione tributaria.

Secondo autorevole dottrina, l’imposta, quale categoria giuridica ben delineata, risponde ad una funzione tipica ed esclusiva, che condiziona e definisce l’essenza stessa dell’obbligazione tributaria, ovvero alla funzione di riparto della spesa pubblica.

L’obbligazione tributaria, in ragione delle sua natura sui generis che ne giustifica l’attrazione nell’alveo delle obbligazioni pubblicistiche, non si esaurisce nel rapporto creditore- debitore tipico del diritto privato. Oltre al normale rapporto verticale di dare e avere tra il Fisco, in veste di creditore, e contribuente- debitore, esiste, parallelamente ad esso, un rapporto orizzontale tra contribuenti, tra i quali il carico impositivo deve essere ripartito in ragione della capacità contributiva, secondo il fondamentale principio scolpito dall’art. 53 Cost.

L’art. 53 Cost.,, nel sancire la doverosità della contribuzione alla spesa pubblica da parte dei cittadini, ne limita al tempo stesso la portata, ancorando il potere del legislatore di imporre prestazioni patrimoniali alla ricorrenza di situazioni in grado di esprimere capacità contributiva.

L’art. 53 Cost. è, dunque, espressione non solo del principio di universalità della contribuzione ma anche di equità del sistema fiscale, che si traduce nella pretesa di ciascun contribuente ad un giusto riparto del carico pubblico complessivo, ovvero a non subire un prelievo superiore alla propria capacità contributiva, manifestata in concreto attraverso comportamenti ritenuti indici espressivi di forza economica.

La contrapposizione tra l’interesse dell’ente impositore alla massimizzazione del gettito e quello del contribuente alla riduzione del carico fiscale è da sempre considerata immanente al diritto tributario, e investe gli elementi costitutivi del tributo, ovvero la sua stessa istituzione, la base imponibile, il presupposto, l’aliquota;

Per tutelare la posizione del singolo contribuente e garantire che il concorso di tutti i coobbligati rispetti il principio di equità, non basta fissare ex ante dei limiti qualitativi e quantitativi al legislatore ordinario in sede d’istituzione di nuove imposte, o prevedere il controllo di costituzionalità ex post, ma occorre inibire all’Amministrazione Finanziaria il potere di disporre del credito tributario. In quest’ottica, infatti, qualsiasi atto dispositivo finirebbe per alterare i meccanismi di ripartizione del carico tributario fissati dal legislatore, vanificando sul piano concreto il principio di capacità contributiva.

La nozione stessa di “indisponibilità”, è stata declinata dai cultori del diritto tributario con una varietà di accezioni e sfumature tale da rendere difficile un’opera di ricomposizione sistematica, tesa a ricondurre in poche categorie omogenee le diverse teorie prospettate.

Una posizione di primo piano va riservata a quelle tesi che riconducono l’indisponibilità del tributo al dovere generale di contribuire alle spese pubbliche secondo capacità contributiva, sancito dall’art. 53 Cost.

Una seconda teoria riconduce il principio d’indisponibilità all’art. 23 Cost., in quanto sostiene riconosce solo la legge, e gli atti ad essa equiparati, quale unica fonte normativa idonea ad imporre prestazioni patrimoniali ai cittadini, appare evidente che l’Amministrazione non potrà né emanare atti che incidono sui presupposti impositivi delineati dal legislatore, né, tantomeno, creare fattispecie di esenzione o di esclusione tributaria.

Merita ora di essere presa in esame la teoria che ha ritenuto di individuare il fondamento dell’indisponibilità nell’art. 97 Cost: alla base di siffatto indirizzo vi è la convinzione che l’indisponibilità del credito tributario deriverebbe non già da un’incompatibilità in astratto tra l’imparzialità dell’azione amministrativa e il potere negoziale di rinuncia al credito, ma dalla difficoltà, riscontrabile nella pratica, di assicurare che l’attività degli Uffici resti informata ai doveri fondamentali d’imparzialità e correttezza nel momento del concreto esercizio dei poteri di disposizione.

Si può rilevare come la tradizionale contrapposizione tra chi aderisce alle teorie che riconducono il carattere indisponibile dell’obbligazione tributaria a precetti costituzionali, e chi, all’opposto, propende per le tesi che negano tale fondamento costituzionale, non si esaurisca più in una sterile disputa dottrinaria.

Non v’è dubbio, infatti, che riconoscere all’indisponibilità una dimensione costituzionale significa non solo vietare qualunque manifestazione autonoma del potere dispositivo da parte dell’Amministrazione Finanziaria, in virtù del principio di riserva di legge, ma anche precludere a una norma di legge ordinaria la possibilità di introdurre meccanismi che consentano all’Amministrazione di rinunciare o disporre del credito, pena la violazione del principio d’indisponibilità costituzionalmente tutelato.

 

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L’ATTUAZIONE DI PRINCIPI DEL DIRITTO TRIBUTARIO CON LO STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE

 

Lo Statuto dei diritti del contribuente è stato introdotto con l. 27 luglio 2000, n. 212. Nell’art. 1, co. 1 di tale legge si indica espressamente che essa attua gli “articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione”, che le disposizioni contenute nello Statuto dei diritti del contribuente “costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario”, che tali disposizioni “possono essere derogate o modificate solo espressamente” e in ogni caso “mai da leggi speciali.

L’articolo 1 dello Statuto del Contribuente nella sua versione letterale innovata raccorda i principi dello Statuto del Contribuente alla diretta attuazione delle norme della Costituzione, dei principi dell’Ordinamento dell’Unione Europea e della Convenzione europea dei diritti fondamentali dell’Uomo, rendendoli applicabili a tutti i soggetti del rapporto tributario.

Preliminarmente va rappresentato come essi continuino a essere dotati di un’investitura legislativa ordinaria, senza privilegi particolari nella gerarchia delle fonti di diritto, per cui sotto tale profilo continuano a rimanere assoggettati all’ordinaria successione delle leggi nel tempo e teoricamente si prestano ad essere sostituiti, revocati o modificati da norme successive.

Tuttavia, nonostante non siano dotati di prerogative di rinforzo, la nuova espressione letterale li rappresenta come regole di diretta attuazione di fonti invalicabili in ordine ai principi in esse evocati (Costituzione, Ordinamento Europeo e CEDU).

Principio costituzionale e principio statutario non sono separabili in quanto tra essi si instaura un pieno rapporto di osmosi funzionale in virtù del fatto che il secondo esplicita con maggiore dettaglio il primo. Eludere la prescrizione statutaria equivale, quindi, eludere il principio di rango costituzionale, per cui una norma che elude lo Statuto elude anche la Costituzione e non può che destrutturarsi di ogni effetto giuridico.

Il legislatore indica espressamente la ratio dello Statuto e quindi ne rileva la funzione per effetto di

interpretazione autentica.

La reale capacità delle norme dello Statuto di svolgere la funzione per cui sono state predisposte va rinvenuta nella loro concreta rispondenza alla funzione attuativa dei suddetti principi costituzionali.

Può affermarsi quindi che le norme dello Statuto non rappresentano norme di rango costituzionale, ma, come riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., ord. 6.7.2004, n. 216), forniscono criteri guida per interpretare le norme tributarie.

In quanto legge di attuazione dei principi costituzionali, lo Statuto può però rappresentare uno strumento di intervento legislativo capace di stabilire diritti e obblighi.

Lo Statuto palesa la propria funzione di legge di attuazione di principi costituzionali e consente al legislatore di fornire ai suddetti principi una dimensione più precisa e concreta all’interno della materia tributaria. Pertanto, alle sue disposizioni con carattere precettivo e direttamente applicabili va riconosciuta una forza passiva potenziata che può ricollegarsi in via interpretativa come effetto dell’obiettivo legislativo di stabilire una disciplina sistematica di questa materia.

Possiamo ben trovare principi generali dell’ordinamento tributario anche al di fuori dello Statuto, come ad esempio l’obbligo di collaborazione delle parti private necessario per consentire l’attuazione del tributo, la tutela dell’interesse fiscale e l’esigenza di bilanciarla con l’uguaglianza delle parti (che costituisce una forma di attuazione dell’art. 3 Cost. non direttamente riconducibile allo Statuto) e vari principi applicabili alle leggi tributarie sostanziali, come quelli di inerenza e competenza, in materia di imposte dirette, o di neutralità, in materia di imposta sul valore aggiunto.

Può concludersi che lo Statuto rappresenti il principale strumento di attuazione dei principi del diritto

applicabili alla materia tributaria, sia per quanto riguarda la formazione delle leggi, sia per quanto riguarda il procedimento tributario, sia per quanto riguarda infine l’ambito del rapporto giuridico denominato comunemente obbligazione tributaria.

Nonostante non determini una vera e propria estensione dei principi costituzionali, lo Statuto li attua in modo da rafforzare la certezza del diritto in merito all’applicazione nella materia tributaria della disciplina comune prevista all’interno dell’ordinamento giuridico. In questo senso, lo Statuto può rappresentare un primo coacervo di codificazione della materia tributaria. Esso però lascia irrisolte molte problematiche interpretative. Tali problematiche vanno risolte in sede di applicazione giudiziale delle norme tributarie e incidono sulla concreta disciplina dell’obbligazione tributaria, che allo stato attuale rimane estremamente frammentata.

 

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L’ACCESSO ALLE DICHIARAZIONI DEI REDDITI: LA PAROLA ALL’ADUNANZA PLENARIA N. 19/2020

Nel giudizio di separazione o divorzio i coniugi sono tenuti a depositare le proprie dichiarazioni dei redditi relative agli ultimi tre anni, per consentire al Giudice di verificare quali margini ci siano per accordare un assegno di mantenimento in favore dei figli ed, eventualmente, del coniuge più debole economicamente.

Tuttavia, entro certi limiti, è possibile per il coniuge accedere alla documentazione reddituale e patrimoniale dell’altro, avanzando un’apposita istanza all’Amministrazione Finanziaria che la detiene.

La tematica, pur sollevata in ambito civile, è stata affrontata dal Giudice Amministrativo ed, in particolare, dal Consiglio di Stato, il quale, già nel 2019, aveva rimosso ogni dubbio in ordine alla possibilità di accesso alle banche dati del coniuge.

Il caso concreto scaturisce dalla richiesta di accesso agli atti avanzata da uno dei coniugi, parte di un giudizio di separazione processuale pendente, mediante la quale lo stesso chiedeva all’Agenzia delle Entrate di prendere visione ed estrarre copia della documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale della controparte conservata negli archivi dell’anagrafe tributaria, nonché di tutte le comunicazioni ivi tenute e concernenti operazioni fiscali comunque riferibili al coniuge.

A fronte della suddetta richiesta l’Agenzia delle Entrate rigettava l’istanza di accesso in ragione dell’intervenuta opposizione del controinteressato, adducendo inoltre la circostanza che con specifico riferimento alla ostensione della documentazione finanziaria richiesta era comunque necessaria la previa autorizzazione del giudice della causa di separazione pendente e dove la stessa avrebbe dovuto essere successivamente prodotta.

Avverso il rigetto dell’Agenzia delle Entrate veniva presentato dall’istante ricorso ai sensi dell’art. 116 cod. proc. amm. avanti al competente Tribunale Amministrativo Regionale. Il Tar adito si pronunciava nel senso che, in pendenza del giudizio di separazione, l’accesso alla documentazione patrimoniale e finanziaria della controparte doveva ritenersi utile al perseguimento della tutela della posizione giuridica dell’istante, ordinando così alla Agenzia delle Entrate di esibire la documentazione e di consentire al ricorrente di estrarne copia.

Tuttavia l’Agenzia delle Entrate impugnava detta sentenza del Tar ritenendo erronea la qualificazione dei documenti fiscali e patrimoniali come accessibili indipendentemente dalla autorizzazione ex art. 492 bis c.p.c. del giudice del giudizio di separazione pendente, rilevando che nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina processualcivilistica in quanto normativa speciale rispetto a quella generale del diritto di accesso di cui agli artt. 22 e seguenti della Legge sul Procedimento Amministrativo (L. 241/1990). In altri termini l’Agenzia delle Entrate evidenziava come l’indispensabilità della documentazione in oggetto ai fini del giudizio di separazione dovesse essere intesa come indice della circostanza che l’unico modo per ottenere l’acquisizione della stessa fosse attraverso le modalità processuali contemplate espressamente dall’ordinamento e non tramite lo strumento generale dell’accesso amministrativo.

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato veniva così investita della controversia avente sostanzialmente come questione centrale l’indagine circa i rapporti tra la normativa del processo civile sui poteri probatori contenuta negli artt. 492 bis c.p.c e155 sexies disp. att. c.p.c. e la disciplina dell’accesso documentale di cui alla legge 241/1990.

Sono dunque molteplici le questioni rimesse all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ma tutte riconducibili a due problematiche centrali e tra loro inevitabilmente connesse.

La prima riguardava, invia preliminare, l’individuazione della nozione di documento amministrativo, mentre la seconda atteneva alla definizione del rapporto tra il diritto di accesso, e nello specifico il diritto di accesso difensivo, e i poteri probatori processualcivilistici (previsti sia dalla disciplina generale ex artt. 210, 211 e 213 c.p.c., sia dalla normativa dei processi in materia di famiglia di cui agli artt. 492 bis c.p.c. e 155 sexies disp.att.c.p.c.) con riferimento a documenti che si trovano nella disponibilità della Pubblica Amministrazione.

 

Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, le dichiarazioni, le comunicazioni e gli atti comunque acquisiti dall’amministrazione finanziaria, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, e inseriti nelle banche dati dell’anagrafe tributaria costituiscono documenti amministrativi ai fini dell’accesso documentale difensivo, che può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri processuali di esibizione di documenti amministrativi e di richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione nel processo civile, nonché dalla previsione dall’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio del giudice civile nei procedimenti in materia di famiglia. Il Collegio ha quindi precisato che l’accesso difensivo ai documenti contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, presenti nell’anagrafe tributaria può essere esercitato mediante estrazione di copia.

L’Adunanza Plenaria adita ha ribadito come il diritto di accesso procedimentale abbia carattere di strumento per la tutela di un interesse di natura individuale, al contrario dell’accesso civico di cui al D.Lgs 33/2013 che invece, in linea generale, riconosce al cittadino la possibilità di conoscere tutti i dati che l’Amministrazione avrebbe l’obbligo di pubblicare, con il fine di soddisfare così una esigenza prettamente di trasparenza e buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Alla luce di tale orientamento espresso dal Consiglio di Stato, si può ritenere senza dubbio che, in pendenza di un procedimento di separazione o divorzio od, in alternativa, nella valutazione preliminare di intraprendere un tale giudizio, il coniuge potrà avere accesso alla documentazione reddituale, patrimoniale e finanziaria dell’altro, avanzando apposita istanza all’Amministrazione Finanziaria.

E’, tuttavia, necessario che l’interesse sotteso alla richiesta sia concreto ed attuale e che l’accesso sia finalizzato alla cura e difesa di un interesse giuridicamente rilevante.

In ogni caso, nel bilanciamento degli interessi in gioco prevale sempre il diritto di conoscere le reali condizioni economiche dell’altro sul diritto alla privacy di questi, se è per tutelare una posizione giuridica meritevole di tutela ed, a maggior ragione, se si tratta di proteggere e garantire gli interessi dei soggetti più deboli del nucleo familiare, primi tra tutti i minori.

 

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Il Silenzio Rifiuto

IL SILENZIO RIFIUTO: IL TEMPO COME BENE DELLA VITA

L’art. 2 della Legge 241/1990, nell’imporre alla P.A. l’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso entro un determinato termine, codifica i principi di certezza del tempo dell’agire della pubblica amministrazione e di doverosità dell’azione amministrativa.

Il termine “silenzio” nel diritto amministrativo si riferisce tradizionalmente agli istituti preposti alla rimozione o alla prevenzione degli effetti negativi dell’inerzia della P.A., in vista della tutela dei soggetti interessati all’emanazione di un atto amministrativo.

Nei casi in cui l’inerzia dell’Amministrazione non è diversamente disciplinata da una norma positiva viene in considerazione l’istituto del silenzio-rifiuto: si tratta di un rimedio di origine giurisprudenziale che presuppone l’interesse qualificato di un soggetto all’emanazione di un atto e consiste nella possibilità di ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’attuazione coattiva del dovere di provvedere inadempiuto dalla P.A..

Esso risulta esperibile in presenza di un obbligo di provvedere nei confronti del richiedente rispetto al quale l’Amministrazione sia rimasta inerte. Si può quindi configurare un silenzio inadempimento dal parte della stessa tutte le volte in cui l’Amministrazione viola l’obbligo di provvedere a prescindere dal contenuto discrezionale o meno del provvedimento.

Il comma 1 dell’art. 2bis della Legge 241/1990 prevede che: “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.

E’ risarcibile il danno da ritardo indipendentemente dalla fondatezza della pretesa azionata con l’istanza avanzata nei confronti della P.A.?

Nel rapporto con la P.A. i beni della vita da tutelare sono due: quello oggetto dell’istanza e quello dell’evasione tempestiva dell’istanza da parte della P.A.

Tale lettura, è in perfetta linea con l’atipicità della tutela aquiliana tracciata dall’art. 2043 c.c..

Da tutto quanto fin detto si ricava che la risarcibilità del danno da mero ritardo significa che il danno può esserci ed essere ingiusto anche se la pretesa è infondata; non certo che il risarcimento del danno sia la conseguenza ineluttabile di ogni violazione del termine. Il riferimento all’ingiustizia, da valutare alla luce dei coefficienti soggettivi che animano privato e P.A., impone che si debba verificare di volta in volta se il privato sia meritevole di tutela.

Invero, dopo che l’evoluzione giurisprudenziale ha definitivamente sganciato il concetto di ingiustizia del danno dalla lesione del diritto soggettivo, fino a comprendere anche l’interesse legittimo, non vi è più alcun ostacolo a considerare tra le posizioni giuridiche meritevoli di tutela anche quella volta ad ottenere dalla P.A. una risposta tempestiva.

Sul punto ha di recente preso posizione l’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021 n. 7) con particolare riguardo alla natura della responsabilità della Pubblica Amministrazione precisando che la stessa, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano ( e non già di responsabilità di inadempimento contrattuale); è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato e non anche il criterio della prevedibilità del danno.

 

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