L’imposta municipale propria (IMU) è l’imposta dovuta per il possesso di fabbricati, escluse le abitazioni principali classificate nelle categorie catastali diverse da A/1, A/8 e A/9, di aree fabbricabili e di terreni agricoli ed è dovuta dal proprietario o dal titolare di altro diritto reale (usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie), dal concessionario nel caso di concessione di aree demaniali e dal locatario in caso di leasing.
L’IMU è stata introdotta, a partire dall’anno 2012, sulla base dell’art. 13 del D. L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in sostituzione dell’imposta comunale sugli immobili (ICI).
A decorrere dal 2014 e fino al 2019, poi, l’IMU è stata individuata dalla legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014) quale imposta facente parte, insieme al tributo per i servizi indivisibili (TASI) e alla tassa sui rifiuti (TARI), dell’imposta unica comunale (IUC).
La legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio per il 2020) ha successivamente abolito, a decorrere dall’anno 2020, la IUC e – tra i tributi che ne facevano parte – la TASI. Sono, invece, rimasti in vigore gli altri due tributi che componevano la IUC, vale a dire la TARI e l’IMU, quest’ultima come ridisciplinata dalla stessa legge n. 160 del 2019.
Per fabbricato si intende la singola unità immobiliare iscritta o iscrivibile a catasto avente rendita propria. La rendita è il valore che viene attribuito all’immobile e sul quale vengono calcolate le imposte (IMU per esempio).
Per fabbricato inagibile si intende quell’immobile “il cui degrado non è superabile con interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ma solo con interventi di restauro e risanamento conservativo e/o di ristrutturazione edilizia”.
Partendo dalla definizione appena citata è facile confondere il fabbricato inagibile con il fabbricato collabente, o almeno pensare che essi siano la stessa cosa. Tra i due esistono diverse differenze, sia in termini strutturali che catastali.
Il fabbricato inagibile (a differenza del fabbricato collabente) viene registrato a catasto con una rendita (essa è il valore che viene attribuito all’immobile e sul quale vengono calcolate le imposte.)
Per i fabbricati collabenti la registrazione a catasto viene fatta sotto la categoria F/2 (categoria fittizia destinata agli immobili privi di rendita); per la fattispecie del fabbricato inagibile invece non vi è una categoria catastale ad hoc in quanto essi mantengono quella iniziale di registrazione (ovvero quella già in essere prima che diventassero inagibili). Di conseguenza, se per fabbricato inagibile prendiamo in riferimento un’abitazione, la categoria catastale sarà la A.
Il fabbricato inagibile per essere riutilizzato necessita di interventi di ristrutturazione importanti (rinforzo delle fondamenta per esempio) e non è dunque sufficiente la semplice manutenzione ordinaria/straordinaria. Ciò però non comporta necessariamente un suo abbattimento. Per i fabbricati collabenti la situazione è differente in quanto, essendo “immobili diroccati”, non vengono quasi mai riutilizzati ma, nella maggior parte dei casi, vengono rasi al suolo in modo da poter costruire sulla stessa area fabbricabile un immobile totalmente nuovo.
La dichiarazione di inagibilità viene presentata dal proprietario all’ufficio tecnico del Comune dove è sito il fabbricato inagibile di sua proprietà.
La riduzione IMU è confermata dall’ articolo 1, comma 747 della legge di bilancio 2020 (L. 160/2019) la cui norma stabilisce la riduzione della base imponibile del 50% per i possessori di un fabbricato inagibile, chiaramente se non utilizzato, non locato e oggetto di interventi di demolizione o di recupero edilizio, limitatamente al periodo dell’anno durante il quale sussistono dette condizioni (Corte Giustizia Trib. II grado , Roma , sez. XI , 28/08/2024 , n. 5361).
Con la sentenza n. 209/2022 la Corte Costituzionale ha rivoluzionato l'esenzione IMU per l'abitazione principale: ai fini dell'esenzione, infatti, per “abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”. Eliminato il riferimento al nucleo familiare, l'esenzione IMU ora compete al verificarsi di due condizioni: la dimora abituale e la residenza anagrafica.
Di conseguenza è legittima l’esenzione dall’IMU per l’abitazione adibita a dimora principale anche nelle ipotesi di scissione del nucleo familiare, sia all’interno dello stesso territorio comunale, sia in Comuni diversi.
Per quanto riguarda il verificarsi delle due condizioni, la questione più intrigante attiene alla “dimora abituale”.
L'art. 43 c.c. stabilisce che “il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”.
Pertanto, si ha dimora abituale quando una persona fissa la propria residenza in un determinato luogo, scegliendo di abitarvi stabilmente e ivi svolgendo con continuità le sue normali consuetudini di vita e le normali relazioni sociali.
Nella sentenza n. 8627 del 28 marzo 2019 la Corte di Cassazione ha ribadito che “se è vero che incombe sull’Amministrazione l’onere di fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, è anche vero che, in tema di agevolazioni tributarie, è chi vuole fare valere una qualsiasi forma di esenzione o di agevolazione che deve provare, quando sul punto vi è contestazione, i presupposti che ne legittimano la richiesta (Cass. n. 23228/2017; n. 21406/2012)”.
Da un lato, quindi, il contribuente deve provare di aver adibito l’immobile ad abitazione principale mediante esibizione di documenti riguardanti bollette relative a consumi (luce, acqua, gas) o contratti di utenze o altri elementi utili.
Dall'altro lato, incombe sull’Amministrazione l’onere di fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa tributaria nel caso in cui voglia disconoscere il beneficio fiscale.
Dopo tale fondamentale pronuncia della Consulta risulta non più invocabile, a giustificazione dell’esclusione del beneficio fiscale in esame, l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 del codice civile, dal momento che una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro di stabilire residenze disgiunte. Nel caso di specie è, dunque, legittima la doppia esenzione a vantaggio sia del coniuge residente nel comune parte in causa, che del coniuge residente in altro comune per motivi di lavoro.
Le abitazioni della categoria catastale A1, conosciute come immobili di tipo signorile, si distinguono, dalle comuni abitazioni residenziali, per caratteristiche architettoniche di pregio e per le loro ampie dimensioni (superficie utile complessiva superiore a 240 mq) ovvero caratterizzate da elementi distintivi come piscine, campi da tennis e una serie di requisiti specifici elencati nel Decreto del Ministero dei Lavori Pubblici del 2 agosto 1969.
Secondo quanto stabilito dalle norme in vigore, sono considerate case di lusso per il Fisco quelle accatastate nella categoria A/8 e A/9, ville, castelli e palazzi eminenti, e su questi immobili, pur se prime case, si deve pagare l’Imu.
Ai fini dell'applicazione delle imposte sugli immobili sulle abitazioni principali, per la caratteristica di immobili di lusso, occorre fare riferimento alla nozione di "superficie utile complessiva" di cui all'art. 6, D.M. 2 agosto 1969, in forza del quale è irrilevante il requisito dell'abitabilità dell'immobile, ma rileva il diverso criterio della effettiva utilizzabilità degli ambienti a prescindere dalla loro effettiva abitabilità (Corte Giustizia Trib. II grado Firenze, (Toscana) sez. II, 03/10/2023, n.957).
La tassa sui rifiuti (TARI) è il tributo destinato a finanziare i costi relativi al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti ed è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte suscettibili di produrre i rifiuti medesimi.
La normativa su cui poggia, oggi, la TARI è la Legge 27 dicembre 2013, n. 147, essa ricalca il modello della TARES, che è stata abrogata a decorrere dal 1° gennaio 2014. I parametri su cui viene calcolato il tributo, per le utenze domestiche, sono il numero dei componenti del nucleo familiare e la superficie calpestabile dei locali.
La tassabilità di locali inutilizzati o privi di allacciamenti è sovente oggetto di contenziosi tra contribuenti ed enti impositori, dal momento che i soggetti passivi ritengono di non dover corrispondere la TARI per questi fabbricati dato che, essendo inutilizzati, non producono rifiuti e pertanto non usufruiscono del servizio di raccolta.
Il presupposto impositivo della TARI non ha dunque una correlazione con il fatto di usufruire del servizio, ma con il disporre di locali o aree scoperte che, anche solo potenzialmente, sono idonei a produrre rifiuti urbani.
Con la sentenza n. 16138 dell’11 giugno 2024 la Cassazione ha chiarito che sussiste l’obbligo di pagare la tassa rifiuti in tutti i casi in cui l’immobile è idoneo a produrre rifiuti a prescindere dall’effettiva produzione degli stessi per volontà o esigenze dell’utente.
Ne deriva che sono esclusi solo i locali che per caratteristiche obiettive non possono produrre rifiuti non per scelta del detentore ma per l’impossibilità di utilizzo.
Per la Corte dunque, la mancata fruizione del servizio, anche in caso di non utilizzo dei locali, non costituisce ragione sufficiente per l’esclusione dalla TARI. La Cassazione aggiunge infine che “la TARI è dovuta, per la disponibilità dell’area produttrice di rifiuti e, dunque, unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti” confermando dunque che è sufficiente la disponibilità dei locali a costituire il presupposto per l’applicazione della TARI. Eventuali condizioni di inidoneità alla produzione di rifiuti (ad esempio per inagibilità dei locali) devono comunque essere comunicate e dimostrate dal contribuente sul quale ricade l’onere della prova.
La T.A.R.I. è caratterizzata da una struttura autoritativa e non sinallagmatica della prestazione, con la conseguente doverosità della prestazione, caratterizzata da una forte impronta pubblicistica; i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata, ed i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo addicendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi, in quanto la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio, avendo il tributo la funzione di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibile a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente (Comm. trib. reg. Sassari, (Sardegna) sez. VIII, 20/01/2021, n.9).
Secondo la normativa italiana ed europea, i rifiuti si distinguono in due grandi categorie: rifiuti urbani e rifiuti speciali.
La differenza tra i due tipi di rifiuto non dipende dalle caratteristiche fisiche o chimiche, bensì dalla loro provenienza, da un’abitazione o da uno stabilimento produttivo. I rifiuti speciali sono quelli generati principalmente da attività produttive, industriali, agricole, sanitarie e di costruzione
In Italia, la gestione dei rifiuti speciali è regolamentata dal D.Lgs. 152/2006, noto anche come Testo Unico Ambientale.
La gestione dei rifiuti speciali avviene sulla base di rapporti specifici e diretti che avvengono tra i produttori di rifiuti speciali (ovvero le aziende produttrici) e i fornitori di servizi (ovvero gli impianti di smaltimento e tutti gli operatori che si occupano delle varie fasi di gestione del rifiuto: trasporto, servizio, gestione documentale, analisi).
Ai fini TARI, per la determinazione della superficie tassabile non si considerano le aree ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori, a condizione che ne dimostrino l'avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente (Corte Giustizia Trib. II grado , Roma , sez. II , 16/04/2024 , n. 2538).
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13455 del 15/05/2024, è tornata sulla questione dell’applicazione della quota fissa della tassa sui rifiuti alle superfici in cui si producono rifiuti speciali, confermando la sua debenza.
In primo luogo, ha ribadito il consolidato orientamento in base al quale è onere del contribuente dimostrare la sussistenza delle condizioni per beneficiare della riduzione della superficie tassabile ovvero dell’esenzione, trattandosi di eccezione alla regola generale del pagamento del tributo sui rifiuti urbani (Cassazione n. 12979/2019 e n. 22130/2017). La disponibilità di locali o aree genera una presunzione di legge di produttività di rifiuti che può essere superata solo dalla prova contraria del contribuente.
Le imprese, quindi, devono dimostrare la produzione di rifiuti speciali e l’esistenza dei presupposti per poter usufruire della detassazione di quelli che vengono definiti imballaggi terziari. Per avere diritto alla detassazione di parte delle superfici di vendita di un supermercato occorre determinare l’entità effettiva di quelle in cui vengono prodotti gli imballaggi terziari, in quanto si tratta di rifiuti speciali esonerati dalla Tari.
Quella che deve essere documentata è l’entità effettiva delle superfici in cui vengono prodotti solo rifiuti speciali, «quali sono quelli derivanti da imballaggi terziari, e non rifiuti urbani o assimilati, nei quali risultano inclusi, invece, gli imballaggi primari e gli imballaggi secondari».
In tema di Tari la produzione di imballaggi terziari non comporta la totale detassazione dei locali quando questa si accompagna a quella di rifiuti assimilati, ma attribuisce un beneficio fiscale che dà luogo ad una riduzione della superficie soggetta ad imposizione per la formazione di rifiuti speciali ovvero ad una riduzione tariffaria, sulla base di un diverso modello operativo introdotto dal regolamento comunale, prevista in un limite massimo percentuale del tributo relativo alla predetta superficie, al fine di non gravare il contribuente, che provvede allo smaltimento in proprio dei rifiuti speciali, del costo ulteriore della relativa tassazione.
La Corte ha risposto all’obiezione sollevata da parte della dottrina, relativa al fatto che la previsione del comma 649 della legge 147/2013, esclude dal tributo le superfici in cui si producono rifiuti speciali, senza operare alcuna distinzione tra quota fissa e variabile.
Per il Supremo consesso la normativa di riferimento della TARI non riconduce la causa di esenzione alla produzione esclusiva e totalizzante di rifiuti non assimilabili, bensì alle sue caratteristiche di continuità e prevalenza.
In sintesi, secondo i principi giurisprudenziali della Suprema Corte, per immobili o aree scoperte in cui vengano prodotti solo oppure prevalentemente rifiuti speciali non assimilati o non assimilabili a quelli urbani va riconosciuta l’esenzione della quota variabile della TARI ma deve comunque essere pagata la quota fissa della TARI che è destinata a finanziare i costi essenziali e generali di investimento e del servizio nell’interesse dell’intera collettività.
L’azione dell’Amministrazione Finanziaria è essenzialmente orientata a contrastare l’evasione. Recentemente, accanto all’evasione si è tuttavia affermato un diverso fenomeno, chiamato elusione o anche abuso del diritto, che, seppur meno insidioso è, in linea di principio riprovato dal sistema.
L’abuso del diritto o elusione fiscale rappresenta una delle elaborazioni più controverse nell’ambito dei sistemi giuridici sia nazionali che sovranazionali e, oggetto, ancora oggi, di un vivo dibattito dottrinale e giurisprudenziale relativo alla sua configurabilità.
Tanto premesso, si osserva che l’evasione è un comportamento illegittimo ed illecito che contrasta in modo diretto con una specifica previsione normativa, che viene espressamente violata.
La condotta di evasione è diretta a sottrarre materia imponibile, occultandola, celando componenti positive di reddito (ricavi, corrispettivi ed altri proventi imponibili) ovvero rappresentando componenti di costo fittizie (costi, spese ed oneri in realtà inesistenti).
L’evasione, in quanto violazione della legge, è contrastata dal legislatore attraverso la previsione di specifiche fattispecie sanzionatorie, amministrative e penali.
L’elusione (o abuso del diritto), di contro è una vicenda caratterizzata dalla presenza di condotte assolutamente lecite, ossia non contrastanti con alcuna espressa previsione normativa; di condotte che, tuttavia, realizzando un risultato disapprovato dall’ordinamento, sono reputate lecite ma non legittime.
L’elusione/ abuso del diritto si sostanzia nel porre in essere un negozio giuridico ovvero una concatenazione di negozi, giuridicamente perfettamente validi ed efficaci, impiegati tuttavia con la funzione atipica (unica e principale) di minimizzare il carico fiscale riducendo (fino a zero) il relativo onere.
Elusione, significa aggiramento di una norma tributaria, che si compie quando, attraverso uno o più negozi, si realizza un assetto giuridico che ne inibisce l’applicazione (perché non viene integrato formalmente il relativo presupposto), ancorchè il risultato pratico/economico conseguito sia, di fatto, il medesimo che la norma tributaria elusa avrebbe inteso assoggettare ad imposizione.
L’elusione fiscale per lungo tempo è stata contrastata da una norma limitata alle sole imposte sui redditi, contenuta nell’art. 37 bis, D.P.R. n. 600/1973.
Con il d.lgs 5 agosto 2015, n. 128, l’art. 37 bis è stato abrogato e sostituito con l’art. 10 bis , L. 27 luglio 2000 n. 212 .
Il nuovo art.10-bis recita: “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.
In assenza di uno dei tre presupposti citati (realizzazione di un vantaggio fiscale indebito, l’assenza di sostanza economica, il conseguimento di un vantaggio fiscale) l’operazione non può essere considerata abusiva (elusiva).
Con specifico riferimento al riparto dell’onere della prova e ai correlati profili procedurali, giova ricordare che l’onere di dimostrare la sussistenza dell’abuso è di norma posto a carico dell’Amministrazione finanziaria, mentre spetta al contribuente dimostrare la sussistenza di “valide ragioni extrafiscali non marginali” (anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale) che giustifichino l’operazione compiuta.
Per operare il disconoscimento del vantaggio fiscale, che è l’obiettivo perseguito dall’art. 10 bis, occorre però qualche cosa di più della mera inopponibilità. Occorre, in altri termini, poter altresì rendere applicabile il regime fiscale che sarebbe stato attuato se non ci fosse stato l’aggiramento, perché solo così diviene possibile esigere le maggiori imposte dovute in forza della norma elusa.