Domenica, 22 Dicembre 2024 03:52
Maria Mingione

Maria Mingione

 

La tecnica del bilanciamento nel difficile equilibrio tra accesso agli atti amministrativi e tutela della privacy

L’introduzione del diritto di accesso ai documenti amministrativi ad opera della L. n. 241/1990 è stata la prima apertura del nostro ordinamento verso una amministrazione ispirata al principio di trasparenza. L’abbandono della vecchia impostazione che configurava gli atti amministrativi come un “segreto” segna senza dubbio un’evoluzione importante ma, al contempo, richiede fin da subito un’attenzione rivolta alla tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nelle vicende che, di volta in volta, possono divenire oggetto di divulgazione e di conoscenza.

Il 1 gennaio 2004 è entrato in vigore il Codice per la protezione dei dati personali, recepito nel D.Lgs. 196/2003, poi integrato profondamente dal Regolamento UE 2016/679.

Tale testo, oltre ad istituire l’Autorità Garante della Privacy, detta importanti norme in materia di tutela dei dati personali, i quali potrebbero essere compromessi dal diritto di accesso generalmente riconosciuto ai cittadini.

L’art. 15 del Regolamento UE 2016/679 disciplina quello che è noto come "diritto di accesso", ovvero la possibilità per l'interessato di ottenere dal titolare del trattamento la conferma o meno che sia presente un trattamento dei suoi dati personali e, in caso di risposta positiva, di ottenerne copia.

Quando, però, l’esibizione documentale comporti anche la conoscenza di dati personali di soggetti diversi rispetto al richiedente, le amministrazioni che ricevono le istanze di accesso si ritrovano a dover prendere in considerazione le esigenze di tutela dei terzi.

Proprio nell’ottica della protezione dei dati personali, l’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013, in conformità con la disciplina dell’Unione e di quella nazionale in materia, afferma che l’accesso deve essere negato quando sia necessario a evitare un “pregiudizio concreto” alla tutela di tali dati e dei diritti e libertà che da essa discendono.

Quindi, quando viene richiesto l’accesso a documenti la cui conoscenza potrebbe confliggere con l’esigenza di riservatezza di dati personali di soggetti terzi, l’amministrazione è chiamata ad effettuare un bilanciamento di interessi contrapposti: da un lato, la trasparenza e, dall’altro lato, la riservatezza.

Questa ponderazione tra interessi contrapposti dipende, fra le altre cose, da due elementi:1) dalla finalità dell’accesso; 2) dal tipo di dato che rischia di essere compromesso.

Sotto il primo versante, quando viene chiesto l’accesso a documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria ai richiedenti per curare o per difendere i propri interessi giuridici, esso deve comunque essere garantito: la valutazione rimessa all’amministrazione ha ad oggetto, quindi, la necessità di quanto richiesto.

Si ritiene comunemente che non è sufficiente che l’istanza di accesso faccia generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite ad un processo in corso o ancora da instaurare: l’istante dovrà, al contrario, motivare adeguatamente sul rapporto di necessarietà fra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa.

Solo se supererà positivamente questo vaglio rigoroso, la richiesta di ostensione al documento potrà essere accolta.

Sotto il secondo profilo, vi sono alcune tipologie di dati, che richiedono una tutela “rafforzata”, di seguito elencati:

- dati giudiziari ovvero quelli che rivelano l'esistenza di determinati provvedimenti giudiziari soggetti ad iscrizione nel casellario giudiziale (come, ad esempio, i provvedimenti penali di condanna definitivi, la liberazione condizionale, il divieto od obbligo di soggiorno, le misure alternative alla detenzione), nonché la qualità di imputato o di indagato;

- dati sensibili: ovverosia quelli idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale;

- dati super-sensibili, cioè i dati sensibili che sono idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

Per quanto riguarda i dati giudiziari e i dati sensibili, nelle operazioni di verifica sul possibile pregiudizio derivante dalla conoscibilità di queste informazioni, l’Amministrazione deve tenere conto di vari parametri.

In primo luogo, la natura sensibile o giudiziaria dei dati dovrebbe far propendere in linea di principio per il rifiuto dell’accesso generalizzato, salvo valutare poi caso per caso le varie situazioni particolari in cui non vi sarebbe comunque un pregiudizio (ad esempio perché le informazioni erano già state rese pubbliche dall’interessato stesso).

Inoltre, particolare attenzione dovrà essere posta nei casi in cui si tratti di informazioni che potrebbero comportare, in base al loro uso, rischi specifici per i diritti e le libertà degli interessati (come ad esempio i dati di localizzazione) o quando l’istanza di accesso abbia ad oggetto documenti contenenti informazioni su minori: in questi casi sarà auspicabile una maggiore cautela nell’accoglimento di tale istanza.

Ancora, è necessario tenere presente che, con riferimento ai dati e alle informazioni personali contenuti in documenti riferiti a singole persone (si pensi a professionisti iscritti a un Ordine o a un Albo o ai partecipanti ad una procedura di concorso) un eventuale accoglimento dell’accesso civico potrebbe determinare ripercussioni negative sul piano professionale, personale e sociale, non solo all’interno dell’ambiente lavorativo ma anche al di fuori.

Per quanto riguarda, infine, i dati super-sensibili, l’accesso è consentito solo se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso a documenti amministrativi sia di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, cioè consista in un diritto della personalità o in un altro diritto o liberà fondamentale e inviolabile. In ogni caso, occorrerà anche il requisito della indispensabilità.

Spetterà, quindi, all’amministrazione valutare il conflitto fra trasparenza e riservatezza, tenendo conto di tutta una serie di parametri ormai consolidati in materia di protezione dei dati personali: limitazione e minimizzazione del trattamento; principi di necessità, proporzionalità, pertinenza e non eccedenza; natura e tipologia dei dati personali e dei soggetti interessati; posizione ricoperta dagli stessi nella società.

 

Etichettato sotto

Con l’espressione “controlli fiscali” ci si riferisce a quell’insieme di attività poste in essere dall’Amministrazione finanziaria finalizzate a verificare l’esatto adempimento degli obblighi, formali e strumentali, e delle obbligazioni (d’imposta, tributarie, accessorie e connesse) gravanti sui contribuenti o su terzi, al fine di assicurare il concreto ed effettivo soddisfacimento dell’interesse pubblico, l’attuazione del prelievo e la repressione dei comportamenti illeciti eventualmente compiuti.

Dalla mancanza di una disposizione di carattere generale sulla partecipazione del contribuente, potrebbe affermarsi che questa sia consentita attraverso singoli strumenti partecipativi previsti da disposizioni fiscali di carattere specifico.

Il Legislatore prevede due diverse tipologie per la partecipazione del contribuente al procedimento tributario. Da un lato ci sono quelle forme di partecipazione di carattere “collaborativo” che collocano l’intervento del contribuente nel corso dell’attività istruttoria in funzione della raccolta di elementi conoscitivi da parte dell’Amministrazione: in tale ipotesi, il coinvolgimento del contribuente viene richiesto al solo fine di fornire elementi che lo stesso contribuente è tenuto a fornite sotto pena dell'irrogazione di sanzioni amministrative.

Una seconda tipologia di forme di partecipazione ha carattere “difensivo” e di norma si colloca nella fase procedimentale della decisione o, in ipotesi, dopo l’emanazione dell’atto finale, caratterizzandosi per la semplice facoltà di intervento del contribuente e per la previa comunicazione da parte dell’Amministrazione al contribuente delle conclusioni da questa provvisoriamente raggiunte.

Lo Statuto del Contribuente (L.212/2000) ha introdotto nell’ordinamento alcuni importanti istituti partecipativi, in chiave difensiva, nel rispetto del principio di buona fede e di collaborazione tra contribuente e amministrazione ( art. 10 bis, comma 6 L. 212/2000; art. 6 comma 5, L. 212/2000; art 38, comma 7 d.p.r. 600/1973; artt. 36 bis, comma 3 e 36 ter, comma 4, d.p.r. 600/1973).

Sempre in un’ottica difensiva si colloca l’art. 12, comma 7, L. 212/2000, che consente al contribuente di comunicare “osservazioni e richieste” entro sessanta giorni dal processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo.

Per la Corte di Giustizia UE (sentenza 18 dicembre 2008, C-349/07, Sopropè) l’esistenza di un diritto generalizzato al contraddittorio discende dal diritto di difesa che va tutelato anche nell’ambito del procedimento amministrativo. In particolare, “il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione”.

Secondo la giurisprudenza dell’UE, la violazione del contradditorio rende annullabile il provvedimento adottato “soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale provvedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (Corte di Giustizia, 3 luglio 2014, C-129/13 e C-130/13, Kamino).

L’art. 41 della Carta di Nizza prevede espressamente “il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei sui confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio”. Trattasi di norma attributiva di un vero e proprio diritto ad una “buona amministrazione” non solo direttamente azionabile, ma anche suscettibile di ricadute all’interno del diritto tributario non armonizzato (Iva, accise, dazi doganali), atteso che l’art. 1, L. 241/1990, come modificato dalla L. 15/2005, dichiara applicabili i principi di origine europea a tutti i procedimenti amministrativi nazionali, e dunque, anche a quelli di natura tributaria. E del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità ha evidenziato la necessità di interpretare il diritto nazionale in conformità al diritto unionale, affermando che “il principio generale del diritto comunitario secondo cui il soggetto destinatario di un atto della pubblica autorità suscettivo di produrre effetti pregiudiziali nella sua sfera giuridica, deve essere messo in condizione di contraddire prima di subire tali effetti, non può tollerare discriminazioni in relazione alla natura armonizzata o meno del tributo” ( Cass., 406/15).

Tutte le suddette fattispecie sono connotate da un comune denominatore, che è quello di essere dirette all’instaurazione del contraddittorio con il contribuente in un momento del procedimento intermedio tra la fase istruttoria e quella della decisione, con l’evidente scopo di consentire al contribuente di apportare elementi conoscitivi in funzione difensiva affinché l’ufficio li valuti al fine della decisione da assumere, ivi compresa una definizione concordata della pretesa.

 

 

Etichettato sotto

L’art. 1 della L. 241/1990 stabilisce che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla Legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza.

La concreta applicazione dei menzionati criteri, nonché dei principi di collaborazione e buona fede di cui al comma 2 bis dello steso art. 1, è favorita dalla previsione di una serie di puntuali regole procedimentali, che l’Amministrazione è tenuta ad osservare per l’accertamento dei fatti e la valutazione degli interessi, prodromici all’assunzione di ogni decisione.

Uno degli strumenti attraverso i quali si realizza, al contempo, l’effettività e l’utilità della dialettica procedimentale è l’istituto del preavviso di rigetto o preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’art. 10 bis della L. 241/1990, il quale è volto ad assicurare al privato istante un’adeguata tutela dell’interesse partecipativo a rappresentare tutti i fatti e gli interessi utili ai fini del conseguimento del bene della vita richiesto, in contraddittorio con l’Amministrazione procedente ed anche in contraddizione rispetto agli esiti istruttori e ponderativi di quest’ultima.

A tenore di tale disposizione, è escluso che l’amministrazione possa negare il bene della vita richiesto dal privato per un motivo diverso da quello rilevato in sede di comunicazione dei motivi ostativi. All’amministrazione, è consentito, eventualmente, addurre i soli motivi ostativi ulteriori che siano conseguenza delle osservazioni dell’istante cui sia stato notificato il preavviso di rigetto. Per di più, in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere, l’Amministrazione non potrà addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.

Tale regola, nell’ambito dei procedimenti ad istanza di parte, è preordinata a sollecitare, a fronte dell’emergere, in sede istruttoria, di motivi potenzialmente ostativi all’accoglimento della domanda, un preventivo e doveroso contraddittorio endoprocedimentale e, quindi, la formulazione di eventuali osservazioni e controdeduzioni, se del caso accompagnate dalle necessarie allegazioni documentali.

Il mancato accoglimento dell’istanza è legittimato solo da specifica giustificazione, trasfusa nella motivazione del provvedimento definitivo, fondata sulla ritenuta inidoneità o irrilevanza delle osservazioni formulate dal privato, con salvezza delle nuove e diverse ragioni ostative che dovessero eventualmente emergere successivamente.

In definitiva, lo scopo del nuovo art. 10 bis della L. 241/1990 è quello di obbligare la P.A. a concentrare tutte le ragioni a fondamento del provvedimento sfavorevole nell’ambito del medesimo, ponendo il privato al riparo dalle conseguenze di una riedizione pressochè infinita del potere amministrativo, con conseguente, defatigante moltiplicazione dei giudizi impugnatori.

Di recente, con le sentenze n. 3480 del 4.05.22 del Consiglio di Stato e n. 597 del 18.05.22 del CGA della regione Siciliana, la Giustizia Amministrativa è tornata a pronunciarsi sul principio del c.d. “one shot temperato”, un vincolo di derivazione giurisprudenziale che impedisce all’Amministrazione pubblica di esprimersi in modo analogo su una medesima questione per un numero infinito di volte dopo ogni annullamento giurisdizionale.

Alla stregua di tale principio, in caso di annullamento in giudizio di un provvedimento di rigetto dell’istanza avanzata dal privato, all’Amministrazione residua esclusivamente il potere di adottare un nuovo provvedimento di rigetto fondato su una motivazione diversa da quella già adottata in occasione dell’adozione del primo provvedimento.

Va precisato che nel nostro ordinamento non vige il principio del cosiddetto “one shot puro”, in virtù del quale sarebbe preclusa all’Amministrazione la reiterazione del provvedimento di rigetto a seguito dell’annullamento di un primo provvedimento, bensì un principio differente, appunto temperato, che “consente all’Amministrazione pubblica che abbia subìto l’annullamento di un proprio atto, di rinnovarlo una sola volta e, quindi, di riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati”

Secondo la ricostruzione confermata dal Giudice Amministrativo d’appello, al dovere della PA di riesaminare complessivamente la situazione a seguito della pronuncia di annullamento, consegue la definitiva preclusione per l’avvenire e, in sostanza, per una terza volta, di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato.

Si attribuiscono quindi all’Amministrazione due chances decisionali, all’esito delle quali essa esaurisce il proprio potere di rinnovazione, alla condizione che i giudicati annullatori (quello afferente all’atto iniziale e quello afferente all’atto successivo) non riguardino vizi meramente procedimentali, bensì il merito della vicenda (così CdS, sent. 439 del 29.01.2015).

La ratio sottesa a tale principio è trovare un “punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi” (CdS, sent. n. 3480 del 4.05.22).

L’esigenza di garantire il principio di rieffusività del potere amministrativo (corollario della tendenziale inesauribilità del medesimo) è così controbilanciata da quella di assicurare che le liti abbiano un termine, garantendo il rispetto del giudicato giurisdizionale, finalità a cui non può non essere data anche una lettura “a vantaggio” del privato, astrattamente costretto, in caso contrario, a ricorrere all’infinito contro nuovi atti della PA analoghi a quelli già giudicati illegittimi.

 

 

Etichettato sotto

Tra i limiti che il Legislatore pone al diritto di accesso vi è quello relativo all’esclusione degli atti relativi a procedimenti tributari. In particolare ai sensi dell’art. 24 della L. 241/1990, il diritto di accesso è escluso “nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano”.

L'esclusione dell'accesso "nei procedimenti tributari" ha natura temporalmente limitata alla conclusione del procedimento tributario, sicché esso risulta precluso in pendenza del procedimento, mentre è ammesso al ricorrere dei presupposti della l. n. 241/1990, una volta concluso il procedimento.

Soltanto nella fase di pendenza del procedimento tributario gli atti relativi ad un accertamento fiscale sono inaccessibili, non rilevando, al contrario, alcuna esigenza di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento, con l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento, essendo tale fase deputata alla tutela in giudizio delle proprie situazioni giuridiche soggettive, ritenute lese dal provvedimento impositivo (T.A.R. Palermo, (Sicilia) sez. II, 10/02/2023, n.450).

Sul tema si è sviluppata un’ampia giurisprudenza volta a circoscrivere la preclusione sopra riportata.

Approdo di tale sviluppo pretorio è rappresentato da un recentissimo intervento dell’Adunanza Plenaria ( Cons. Stato, Ad. Plen, 14 marzo 2022, n. 4) in materia di accesso alle cartelle di pagamento che ha ribadito il principio fondamentale dell’accessibilità di tali documenti da parte di soggetti titolari di un interesse difensivo e concreto.

L’Adunanza Plenaria ritiene opportuno chiarire che la cartella di pagamento va considerata come documento amministrativo accessibile ai sensi dell’art. 22 della L. 241/1990.

La cartella, da una parte è lo strumento che nel procedimento di esecuzione esattoriale serve a portare a conoscenza del contribuente, mediante notifica, l’esistenza del titolo esecutivo posto a base dell’esecuzione esattoriale e costituita dal ruolo, dall’altro incorpora il contenuto del “precetto”, ovvero contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorno dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata.

L’Adunanza, dunque, formula i seguenti principi di diritto: “Il concessionario della riscossione, ai sensi dell’art. 26, comma 5 del D.P.R. 602/1973, ha l’obbligo di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella di pagamento, anche quando esso si sia avvalso delle modalità semplificate di diretta notificazione della stessa a mezzo di raccomandata postale.

Qualora il contribuente richieda la copia della cartella di pagamento, e questa non sia concretamente disponibile, il concessionario della riscossione non si libera dell’obbligo di ostensione attraverso il rilascio del mero estratto di ruolo, ma deve rilasciare una attestazione che dia atto dell’inesistenza della cartella, avendo cura di spiegarne le ragioni”.

Il rilievo peculiare e autonomo che sia la giurisprudenza che il legislatore hanno dato all’estratto di ruolo conferma che esso è un atto ontologicamente diverso dalla cartella di pagamento: il primo è un mero strumento di conoscenza, la seconda è un atto fondamentale del procedimento di esecuzione esattoriale che deve essere notificato al contribuente e conservato in copia a cura del Concessionario.

Corollario di tale ricostruzione è che ove il contribuente chiede accesso alla cartella di pagamento e questa rientri nel periodo di obbligatoria conservazione, è solo con il rilascio della copia della cartella di pagamento, e non con l’estratto di ruolo, che il Concessionario adempie esattamente ai suoi obblighi di ostensione.

 

 

Etichettato sotto

L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza.

La partecipazione offre la possibilità ai soggetti legittimati di "presentare memorie scritte e documenti" nonchè di "prendere visione degli atti del procedimento" (art. 10 L. 241/90).

Il diritto di accesso ai documenti amministrativi spetta a tutti i soggetti interessati, intendendosi come tali “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento amministrativo al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, comma 1, lett. b), L. 241/1990).

L'accesso deve essere considerato non solo ed esclusivamente come un istituto capace di permettere la conoscenza dei documenti amministrativi in via strumentale alla partecipazione procedimentale o alla difesa in giudizio, ma anche come idoneo ad ottenere la conoscenza di atti del procedimento amministrativo, ogniqualvolta venga allegata la sussistenza di un interesse alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, la cui nozione è più ampia ed estesa rispetto a quella dell'interesse all'impugnazione, potendo avere ad oggetto atti idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei confronti dell'istante indipendentemente dalla sussistenza o meno di una loro lesività (T.A.R. Valle d'Aosta sez. I, 16/11/2020, n.58).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la recente pronuncia n. 4/2021, affronta la questione sottesa al tipo di valutazione che deve investire il collegamento fra esigenza di ottenere l’ostensione del documento ed esigenza difensiva dell’istante.

L’Adunanza Plenaria, nelle precedenti sentenze gemelle nn. 19, 20 e 21 del 2020 pur avendo chiarito la rilevanza “complementare” dell’accesso difensivo rispetto al sistema di acquisizione probatoria del giudizio civile, non ha precisato i poteri di valutazione dell’istanza di accesso difensivo da parte dell’amministrazione.

L’Adunanza torna a pronunciarsi in tema dell’accesso agli atti in materia di documentazione finanziaria detenuta dall’Anagrafe tributaria per risolvere alcuni aspetti rimasti irrisolti con riferimento al tema dell’accesso documentale “difensivo”. I chiarimenti si intendono necessari in considerazione dei dati in possesso dell’anagrafe tributaria che consentono di ricostruire le vicende patrimoniali e personali, di ogni cittadino.

L’Adunanza plenaria affronta la questione se l’amministrazione, in sede di valutazione di una domanda di accesso difensivo a documenti amministrativi, debba operare un giudizio di “mera attinenza” oppure di “stretto collegamento” tra atti richiesti e difese da apprestare nell’ambito di un processo pendente o da instaurare.

Ebbene, ai fini del bilanciamento tra il diritto di accesso difensivo, preordinato all’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale in senso lato, e la tutela della riservatezza (nella specie, cd. finanziaria ed economica), secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, per l’Adunanza Plenaria, non trova applicazione né il criterio della stretta indispensabilità (riferito ai dati sensibili e giudiziari) né il criterio dell'indispensabilità e della parità di rango (riferito ai dati cc.dd. supersensibili), ma il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico, ritenuto dal legislatore tendenzialmente prevalente sulla tutela della riservatezza, a condizione del riscontro della sussistenza dei presupposti generali dell’accesso documentale di tipo difensivo. E, allora, afferma la Plenaria, il collegamento tra la situazione legittimante e la documentazione richiesta, impone un’attenta analisi della motivazione che la pubblica amministrazione ha adottato nel provvedimento con cui ha accolto o, viceversa, respinto l’istanza di accesso.

A tal fine l’Adunanza Plenaria, dopo avere ricostruito i presupposti dell’accesso difensivo, fissa i seguenti principî di diritto: In materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poichè l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare; la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla L. 241/1990”.

 

Etichettato sotto

Seguici su Facebook