Lunedì, 23 Dicembre 2024 05:57

Il preavviso di provvedimento negativo (ART. 10 BIS, L. 241/1990)

Pubblicato in Economia e Diritto

L’art. 1 della L. 241/1990 stabilisce che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla Legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza.

La concreta applicazione dei menzionati criteri, nonché dei principi di collaborazione e buona fede di cui al comma 2 bis dello steso art. 1, è favorita dalla previsione di una serie di puntuali regole procedimentali, che l’Amministrazione è tenuta ad osservare per l’accertamento dei fatti e la valutazione degli interessi, prodromici all’assunzione di ogni decisione.

Uno degli strumenti attraverso i quali si realizza, al contempo, l’effettività e l’utilità della dialettica procedimentale è l’istituto del preavviso di rigetto o preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’art. 10 bis della L. 241/1990, il quale è volto ad assicurare al privato istante un’adeguata tutela dell’interesse partecipativo a rappresentare tutti i fatti e gli interessi utili ai fini del conseguimento del bene della vita richiesto, in contraddittorio con l’Amministrazione procedente ed anche in contraddizione rispetto agli esiti istruttori e ponderativi di quest’ultima.

A tenore di tale disposizione, è escluso che l’amministrazione possa negare il bene della vita richiesto dal privato per un motivo diverso da quello rilevato in sede di comunicazione dei motivi ostativi. All’amministrazione, è consentito, eventualmente, addurre i soli motivi ostativi ulteriori che siano conseguenza delle osservazioni dell’istante cui sia stato notificato il preavviso di rigetto. Per di più, in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere, l’Amministrazione non potrà addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.

Tale regola, nell’ambito dei procedimenti ad istanza di parte, è preordinata a sollecitare, a fronte dell’emergere, in sede istruttoria, di motivi potenzialmente ostativi all’accoglimento della domanda, un preventivo e doveroso contraddittorio endoprocedimentale e, quindi, la formulazione di eventuali osservazioni e controdeduzioni, se del caso accompagnate dalle necessarie allegazioni documentali.

Il mancato accoglimento dell’istanza è legittimato solo da specifica giustificazione, trasfusa nella motivazione del provvedimento definitivo, fondata sulla ritenuta inidoneità o irrilevanza delle osservazioni formulate dal privato, con salvezza delle nuove e diverse ragioni ostative che dovessero eventualmente emergere successivamente.

In definitiva, lo scopo del nuovo art. 10 bis della L. 241/1990 è quello di obbligare la P.A. a concentrare tutte le ragioni a fondamento del provvedimento sfavorevole nell’ambito del medesimo, ponendo il privato al riparo dalle conseguenze di una riedizione pressochè infinita del potere amministrativo, con conseguente, defatigante moltiplicazione dei giudizi impugnatori.

Di recente, con le sentenze n. 3480 del 4.05.22 del Consiglio di Stato e n. 597 del 18.05.22 del CGA della regione Siciliana, la Giustizia Amministrativa è tornata a pronunciarsi sul principio del c.d. “one shot temperato”, un vincolo di derivazione giurisprudenziale che impedisce all’Amministrazione pubblica di esprimersi in modo analogo su una medesima questione per un numero infinito di volte dopo ogni annullamento giurisdizionale.

Alla stregua di tale principio, in caso di annullamento in giudizio di un provvedimento di rigetto dell’istanza avanzata dal privato, all’Amministrazione residua esclusivamente il potere di adottare un nuovo provvedimento di rigetto fondato su una motivazione diversa da quella già adottata in occasione dell’adozione del primo provvedimento.

Va precisato che nel nostro ordinamento non vige il principio del cosiddetto “one shot puro”, in virtù del quale sarebbe preclusa all’Amministrazione la reiterazione del provvedimento di rigetto a seguito dell’annullamento di un primo provvedimento, bensì un principio differente, appunto temperato, che “consente all’Amministrazione pubblica che abbia subìto l’annullamento di un proprio atto, di rinnovarlo una sola volta e, quindi, di riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati”

Secondo la ricostruzione confermata dal Giudice Amministrativo d’appello, al dovere della PA di riesaminare complessivamente la situazione a seguito della pronuncia di annullamento, consegue la definitiva preclusione per l’avvenire e, in sostanza, per una terza volta, di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato.

Si attribuiscono quindi all’Amministrazione due chances decisionali, all’esito delle quali essa esaurisce il proprio potere di rinnovazione, alla condizione che i giudicati annullatori (quello afferente all’atto iniziale e quello afferente all’atto successivo) non riguardino vizi meramente procedimentali, bensì il merito della vicenda (così CdS, sent. 439 del 29.01.2015).

La ratio sottesa a tale principio è trovare un “punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi” (CdS, sent. n. 3480 del 4.05.22).

L’esigenza di garantire il principio di rieffusività del potere amministrativo (corollario della tendenziale inesauribilità del medesimo) è così controbilanciata da quella di assicurare che le liti abbiano un termine, garantendo il rispetto del giudicato giurisdizionale, finalità a cui non può non essere data anche una lettura “a vantaggio” del privato, astrattamente costretto, in caso contrario, a ricorrere all’infinito contro nuovi atti della PA analoghi a quelli già giudicati illegittimi.

 

 

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