L’ACCESSO ALLE DICHIARAZIONI DEI REDDITI: LA PAROLA ALL’ADUNANZA PLENARIA N. 19/2020
Nel giudizio di separazione o divorzio i coniugi sono tenuti a depositare le proprie dichiarazioni dei redditi relative agli ultimi tre anni, per consentire al Giudice di verificare quali margini ci siano per accordare un assegno di mantenimento in favore dei figli ed, eventualmente, del coniuge più debole economicamente.
Tuttavia, entro certi limiti, è possibile per il coniuge accedere alla documentazione reddituale e patrimoniale dell’altro, avanzando un’apposita istanza all’Amministrazione Finanziaria che la detiene.
La tematica, pur sollevata in ambito civile, è stata affrontata dal Giudice Amministrativo ed, in particolare, dal Consiglio di Stato, il quale, già nel 2019, aveva rimosso ogni dubbio in ordine alla possibilità di accesso alle banche dati del coniuge.
Il caso concreto scaturisce dalla richiesta di accesso agli atti avanzata da uno dei coniugi, parte di un giudizio di separazione processuale pendente, mediante la quale lo stesso chiedeva all’Agenzia delle Entrate di prendere visione ed estrarre copia della documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale della controparte conservata negli archivi dell’anagrafe tributaria, nonché di tutte le comunicazioni ivi tenute e concernenti operazioni fiscali comunque riferibili al coniuge.
A fronte della suddetta richiesta l’Agenzia delle Entrate rigettava l’istanza di accesso in ragione dell’intervenuta opposizione del controinteressato, adducendo inoltre la circostanza che con specifico riferimento alla ostensione della documentazione finanziaria richiesta era comunque necessaria la previa autorizzazione del giudice della causa di separazione pendente e dove la stessa avrebbe dovuto essere successivamente prodotta.
Avverso il rigetto dell’Agenzia delle Entrate veniva presentato dall’istante ricorso ai sensi dell’art. 116 cod. proc. amm. avanti al competente Tribunale Amministrativo Regionale. Il Tar adito si pronunciava nel senso che, in pendenza del giudizio di separazione, l’accesso alla documentazione patrimoniale e finanziaria della controparte doveva ritenersi utile al perseguimento della tutela della posizione giuridica dell’istante, ordinando così alla Agenzia delle Entrate di esibire la documentazione e di consentire al ricorrente di estrarne copia.
Tuttavia l’Agenzia delle Entrate impugnava detta sentenza del Tar ritenendo erronea la qualificazione dei documenti fiscali e patrimoniali come accessibili indipendentemente dalla autorizzazione ex art. 492 bis c.p.c. del giudice del giudizio di separazione pendente, rilevando che nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina processualcivilistica in quanto normativa speciale rispetto a quella generale del diritto di accesso di cui agli artt. 22 e seguenti della Legge sul Procedimento Amministrativo (L. 241/1990). In altri termini l’Agenzia delle Entrate evidenziava come l’indispensabilità della documentazione in oggetto ai fini del giudizio di separazione dovesse essere intesa come indice della circostanza che l’unico modo per ottenere l’acquisizione della stessa fosse attraverso le modalità processuali contemplate espressamente dall’ordinamento e non tramite lo strumento generale dell’accesso amministrativo.
La Quarta Sezione del Consiglio di Stato veniva così investita della controversia avente sostanzialmente come questione centrale l’indagine circa i rapporti tra la normativa del processo civile sui poteri probatori contenuta negli artt. 492 bis c.p.c e155 sexies disp. att. c.p.c. e la disciplina dell’accesso documentale di cui alla legge 241/1990.
Sono dunque molteplici le questioni rimesse all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ma tutte riconducibili a due problematiche centrali e tra loro inevitabilmente connesse.
La prima riguardava, invia preliminare, l’individuazione della nozione di documento amministrativo, mentre la seconda atteneva alla definizione del rapporto tra il diritto di accesso, e nello specifico il diritto di accesso difensivo, e i poteri probatori processualcivilistici (previsti sia dalla disciplina generale ex artt. 210, 211 e 213 c.p.c., sia dalla normativa dei processi in materia di famiglia di cui agli artt. 492 bis c.p.c. e 155 sexies disp.att.c.p.c.) con riferimento a documenti che si trovano nella disponibilità della Pubblica Amministrazione.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, le dichiarazioni, le comunicazioni e gli atti comunque acquisiti dall’amministrazione finanziaria, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, e inseriti nelle banche dati dell’anagrafe tributaria costituiscono documenti amministrativi ai fini dell’accesso documentale difensivo, che può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri processuali di esibizione di documenti amministrativi e di richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione nel processo civile, nonché dalla previsione dall’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio del giudice civile nei procedimenti in materia di famiglia. Il Collegio ha quindi precisato che l’accesso difensivo ai documenti contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, presenti nell’anagrafe tributaria può essere esercitato mediante estrazione di copia.
L’Adunanza Plenaria adita ha ribadito come il diritto di accesso procedimentale abbia carattere di strumento per la tutela di un interesse di natura individuale, al contrario dell’accesso civico di cui al D.Lgs 33/2013 che invece, in linea generale, riconosce al cittadino la possibilità di conoscere tutti i dati che l’Amministrazione avrebbe l’obbligo di pubblicare, con il fine di soddisfare così una esigenza prettamente di trasparenza e buon andamento della Pubblica Amministrazione.
Alla luce di tale orientamento espresso dal Consiglio di Stato, si può ritenere senza dubbio che, in pendenza di un procedimento di separazione o divorzio od, in alternativa, nella valutazione preliminare di intraprendere un tale giudizio, il coniuge potrà avere accesso alla documentazione reddituale, patrimoniale e finanziaria dell’altro, avanzando apposita istanza all’Amministrazione Finanziaria.
E’, tuttavia, necessario che l’interesse sotteso alla richiesta sia concreto ed attuale e che l’accesso sia finalizzato alla cura e difesa di un interesse giuridicamente rilevante.
In ogni caso, nel bilanciamento degli interessi in gioco prevale sempre il diritto di conoscere le reali condizioni economiche dell’altro sul diritto alla privacy di questi, se è per tutelare una posizione giuridica meritevole di tutela ed, a maggior ragione, se si tratta di proteggere e garantire gli interessi dei soggetti più deboli del nucleo familiare, primi tra tutti i minori.
IL SILENZIO RIFIUTO: IL TEMPO COME BENE DELLA VITA
L’art. 2 della Legge 241/1990, nell’imporre alla P.A. l’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso entro un determinato termine, codifica i principi di certezza del tempo dell’agire della pubblica amministrazione e di doverosità dell’azione amministrativa.
Il termine “silenzio” nel diritto amministrativo si riferisce tradizionalmente agli istituti preposti alla rimozione o alla prevenzione degli effetti negativi dell’inerzia della P.A., in vista della tutela dei soggetti interessati all’emanazione di un atto amministrativo.
Nei casi in cui l’inerzia dell’Amministrazione non è diversamente disciplinata da una norma positiva viene in considerazione l’istituto del silenzio-rifiuto: si tratta di un rimedio di origine giurisprudenziale che presuppone l’interesse qualificato di un soggetto all’emanazione di un atto e consiste nella possibilità di ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’attuazione coattiva del dovere di provvedere inadempiuto dalla P.A..
Esso risulta esperibile in presenza di un obbligo di provvedere nei confronti del richiedente rispetto al quale l’Amministrazione sia rimasta inerte. Si può quindi configurare un silenzio inadempimento dal parte della stessa tutte le volte in cui l’Amministrazione viola l’obbligo di provvedere a prescindere dal contenuto discrezionale o meno del provvedimento.
Il comma 1 dell’art. 2bis della Legge 241/1990 prevede che: “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
E’ risarcibile il danno da ritardo indipendentemente dalla fondatezza della pretesa azionata con l’istanza avanzata nei confronti della P.A.?
Nel rapporto con la P.A. i beni della vita da tutelare sono due: quello oggetto dell’istanza e quello dell’evasione tempestiva dell’istanza da parte della P.A.
Tale lettura, è in perfetta linea con l’atipicità della tutela aquiliana tracciata dall’art. 2043 c.c..
Da tutto quanto fin detto si ricava che la risarcibilità del danno da mero ritardo significa che il danno può esserci ed essere ingiusto anche se la pretesa è infondata; non certo che il risarcimento del danno sia la conseguenza ineluttabile di ogni violazione del termine. Il riferimento all’ingiustizia, da valutare alla luce dei coefficienti soggettivi che animano privato e P.A., impone che si debba verificare di volta in volta se il privato sia meritevole di tutela.
Invero, dopo che l’evoluzione giurisprudenziale ha definitivamente sganciato il concetto di ingiustizia del danno dalla lesione del diritto soggettivo, fino a comprendere anche l’interesse legittimo, non vi è più alcun ostacolo a considerare tra le posizioni giuridiche meritevoli di tutela anche quella volta ad ottenere dalla P.A. una risposta tempestiva.
Sul punto ha di recente preso posizione l’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021 n. 7) con particolare riguardo alla natura della responsabilità della Pubblica Amministrazione precisando che la stessa, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano ( e non già di responsabilità di inadempimento contrattuale); è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato e non anche il criterio della prevedibilità del danno.
L SILENZIO ASSENSO: FERVIDO DIBATTITO GIURISPRUDENZIALE SULLA FORMAZIONE DELL’ASSENSO ANCHE QUANDO L’ATTIVITA’ OGGETTO DEL PROVVEDIMENTO DI CUI SI CHIEDE L’ADOZIONE NON SIA CONFORME ALLE NORME
Accanto al silenzio-rifiuto, che è un rimedio di tipo successivo, diretto a rimuovere gli effetti negativi dell’inerzia, l’ordinamento conosce un rimedio preventivo, che consiste nella eliminazione della stessa possibilità che il ritardo nella conclusione del procedimento produca effetti negativi in capo al soggetto interessato all’emanazione dell’atto.
Si tratta del c.d. “silenzio –assenso”, che costituisce una qualificazione giuridica formale del silenzio, nel senso che, decorso il termine di provvedere senza che la P.A. si sia pronunciata, l’istanza presentata dal privato si considera accolta.
In considerazione dell’art. 20 della L. 241/1990, nei procedimenti a istanza di parte (salve le eccezioni ivi contemplate), il decorso infruttuoso del termine di provvedere corrisponde a un accoglimento della domanda del privato.
Per tale ragione il silenzio assenso viene annoverato tra le ipotesi di silenzio cd. “significativo” ossia con valore provvedimentale, al quale la Legge ascrive valore legale tipico.
Il conferimento del valore di provvedimento tacito al silenzio dell’amministrazione rende di conseguenza illegittimo un eventuale sopravvenuto provvedimento espresso della P.A. di rigetto della domanda del cittadino.
Ciò, tuttavia, accade inevitabilmente? Accade, cioè, anche in quei casi in cui l’attività richiesta non sia conforme alla disciplina di settore? Sul tema sussistono visioni non univoche: da un lato vi è un orientamento che nega la formazione del silenzio assenso quando, pur al decorrere dei termini per provvedere, non ricorrano i presupposti sostanziali per il rilascio del titolo; dall’altro, si colloca un diverso filone che valorizza la funzione semplificatrice del silenzio assenso, anche a scapito dell’esigenza di conformità legale di un’attività privata soggetta al rilascio di un titolo autorizzativo alla relativa fattispecie normativa.
Il Consiglio di Stato, sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746, ha accolto il secondo orientamento e ha, pertanto, ritenuto formato il silenzio assenso in una fattispecie nella quale pure non ricorrevano i presupposti di Legge per il rilascio del titolo abilitativo sostituito dall’assenso tacito.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, “il silenzio-assenso si forma anche quando l’attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l’adozione non è conforme alle norme che ne disciplinano lo svolgimento, e ciò in ragione dell’obiettivo di semplificazione perseguito dal legislatore – rendere più spediti i rapporti tra amministrazione e cittadini, senza sottrarre l’attività al controllo dell’amministrazione – che viene realizzato stabilendo che il potere (primario) di provvedere viene meno con il decorso del termine procedimentale, residuando la sola possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi silentemente”
É sufficiente soltanto il decorso del termine assegnato all'ente dalla normativa di riferimento in relazione al tipo di istanza del privato (per esempio, 60 giorni per il permesso di costruire in base all'articolo 20 del Dpr 380/2001) perché si formi il silenzio assenso, anche in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
É comunque necessario che l'istanza sia aderente al modello normativo astratto prefigurato dal modello normativo astratto prefigurato dal legislatore.
Con la conseguenza che, spirato il termine, si consuma il potere della Pa di provvedere, residuando invece solo quello di intervenire in autotutela sul silenzio così formatosi e comunque alle condizioni fissate dall'articolo 21-nonies della legge 241/1990.
Di recente il Consiglio di Stato sez. VI, 04/03/2024, n.2082 ha affermato che il silenzio-assenso può determinarsi anche quando la richiesta di adozione del provvedimento non rispetta le norme che ne regolamentano lo svolgimento. L'obiettivo di semplificare i rapporti tra amministrazione e cittadini, mantenendo però il controllo da parte dell'amministrazione, si realizza conferendo il diritto di decidere entro il termine prestabilito e successivamente consentendo solo interventi in autotutela.
Gli enti preposti alla gestione dell’imposizione tributaria e alla riscossione, raccolgono e conservano grosse quantità di dati di soggetti ed imprese.
Con riferimento alla privacy tributaria, non mancano riferimenti espliciti nel Regolamento UE 679/2016 (GDPR) e nel Codice Privacy come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.
Al di là del dato normativo, il Garante è più volte intervenuto sul tema della riservatezza di tale categoria di interessati. A titolo esemplificativo ma non esaustivo, l’Autorità si è pronunciata su innumerevoli questioni complesse, quali le comunicazioni all'anagrafe tributaria, la dichiarazione dei redditi pre compilata, i controlli antievasione o l’utilizzo dei dati derivanti dallo scambio automatico di autorità fiscali in materia di fatturazione elettronica.
In particolare, la tutela di un interesse collettivo quale l’affidabilità economica di un soggetto o la lotta all’evasione - specialmente in virtù della loro incidenza sui soggetti facenti parte di una collettività determinata - può giustificare, talvolta, la compressione di un altro diritto fondamentale quale la privacy.
Sul punto si è pronunciata, di recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la quale con la sentenza n. 36345/16 del 12 gennaio 2021 ha dichiarato legittima la diffusione di informazioni negative sul conto degli evasori, poiché - in ragione del contemperamento degli interessi in gioco - è naturale che quello pubblico alla trasparenza dell’affidabilità economica prevalga su quello individuale alla riservatezza. Inoltre, tale stratagemma, oltre a fissare un criterio di priorità, può fungere da deterrente e scongiurare ulteriori condotte lesive ai danni della legge tributaria.
Il caso aveva ad oggetto la pubblicazione da parte dell’Autorità nazionale fiscale e doganale ungherese, sul proprio sito web, dei dati anagrafici e fiscali del ricorrente in un apposito elenco dei soggetti maggiormente inadempienti nel pagamento delle imposte.
Il ricorrente sosteneva che era stato violato il suo diritto al rispetto della vita privata protetto dall’articolo 8 della Convenzione: la pubblicazione dei suoi dati personali nella lista degli evasori fiscali, perseguendo come unico scopo quello di screditare pubblicamente la sua persona, non poteva essere considerata una misura avente una finalità legittima. Si contestava, inoltre, l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo di deterrenza dalla reiterazione dell’evasione fiscale e la proporzionalità della stessa in relazione alla tipologia e alla portata di dati personali pubblicati, considerata abnorme rispetto all’obiettivo di identificazione dell’evasore.
La divulgazione dell’elenco delle persone debitrici verso l’erario rispondeva, dunque, secondo la Cedu, ad un interesse generale meritevole di tutela, non trattandosi di soddisfare la curiosità del pubblico, ma piuttosto di rendere pubblica l’identità delle persone che non rispettano i loro obblighi fiscali, anche al fine di tutelare gli interessi commerciali di terzi, incentivando così un corretto funzionamento del sistema fiscale e sociale.
La misura è stata infine giudicata proporzionata in relazione alla portata dei dati personali pubblicati e alle modalità di pubblicazione su Internet. La Corte ha valutato che la normativa operasse una distinzione tra i contribuenti sulla base di criteri pertinenti – quali l’ammontare del debito nei confronti del fisco e la durata dell’inadempimento – perseguendo così una logica di minimizzazione dell’ingerenza nella vita privata del ricorrente. Altri elementi ritenuti rilevanti dalla Corte nel giudizio di proporzionalità della misura sono stati la temporaneità della pubblicazione – destinata a cessare con l’adempimento degli obblighi fiscali – e la portata di dati pubblicati, giudicati strettamente necessari all’effettiva identificazione dell’evasore da parte degli altri consociati.
La sentenza in esame costituisce l’occasione per riflettere sulla protezione del diritto fondamentale alla protezione dei “dati personali” dei contribuenti nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, confrontando il livello di protezione assicurato dalle fonti europee (art. 8 della CEDU e artt. 7 e 8 della Carta di Nizza) e quello riconosciuto in materia tributaria dal diritto interno, come interpretato e applicato dalla Corte di Cassazione.
Infatti, il tema della protezione dei “dati personali” e, in generale, della riservatezza del contribuente nonché del corretto bilanciamento della protezione dei diritti fondamentali con l’interesse generale alla lotta all’evasione fiscale merita una crescente attenzione, soprattutto a seguito dei nuovi e potentissimi strumenti tecnologici, in continua evoluzione, a disposizione dell’Amministrazione finanziaria (italiana, come quelle degli altri paesi sviluppati), ormai utilizzati massivamente e ulteriormente implementati dallo sviluppo della intelligenza artificiale.
Il principio di trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione, di cui il diritto di accesso costituisce un corollario fondamentale, è definito come l’accessibilità totale alle informazioni relative all’organizzazione e al funzionamento della Pubblica Amministrazione.
In un clima internazionale particolarmente sensibile alla lotta contro i fenomeni corruttivi, il Legislatore ha potenziato e implementato il principio di trasparenza, finalizzato all’affermazione di un “controllo diffuso di legalità” dell’agere amministrativo.
L’introduzione delle norme in materia di accesso ai documenti amministrativi, di cui al Capo V della L. 241/1990 (artt. 22 e ss.), ha segnato il passaggio da un sistema incentrato sul principio di segretezza ad un sistema basato sui principi di pubblicità e trasparenza.
A tale figura di accesso, si affiancano l’accesso civico, introdotto dal d.lgs n. 33 del 2013, e l’accesso generalizzato introdotto dal d.lgs n. 97 del 2016.
Il c.d. accesso classico o documentale, è un istituto a legittimazione ristretta, consentito solo a “chi intenda curare o difendere attraverso la conoscenza dell’atto, un diritto di cui sia già titolare”. L’istanza di accesso non può essere, quindi, diretta, ad “un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24 co. 3, l. 241/1990), deve essere corredata da adeguata motivazione
A differenza dell’acceso “classico”, collegato a stringenti limiti di legittimazione, l’acceso “civico” e l’accesso “generalizzato” non richiedono un interesse diretto, concreto e attuale del soggetto che ne faccia richiesta, in quanto l’acceso, in questa ipotesi, è riconosciuto a “chiunque”.
Con riguardo all’istituto dell’accesso civico, è opportuno osservare che qualsiasi cittadino può chiedere e ottenere le informazioni, senza dovere dimostrare di avere uno specifico interesse su di esse.
In coerenza, l’art. 5 co. 1 D.Lgs. 33/2013 non prevede che la richiesta di accesso debba essere motivata.
Inoltre, questa ipotesi di diritto di accesso non riguarda solo i documenti, ma anche informazioni o dati. Oggetto della richiesta potranno, quindi, essere le informazioni e gli atti anche se non pubblicati dall’ Amministrazione.
In relazione, invece, all’accesso universale, previsto dal nuovo comma 2 dell’art. 5, D.Lgs. 33/2013, si osserva che, il medesimo è ispirato al c.d. FOIA (Freedom of Information Act) e viene introdotto nel nostro ordinamento allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. La legittimazione a presentare richiesta di accesso è, pertanto, generalizzata e “chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione”. Ne consegue, quindi, che si tratta di un accesso civico libero, che ha ad oggetto tuti gli atti e i documenti dell’Amministrazione.
Ne consegue che se l’acceso civico può essere definito come strumento “proattivo”, poiché tende a stimolare l’adempimento dell’obbligo dell’Amministrazione di pubblicare i documenti e gli atti previsti dalla Legge, l’accesso universale è, invece, uno strumento “reattivo”, che si attiva a prescindere dall’obbligo della P.A. di pubblicare atti e documenti.
Un’altra differenza tra l’accesso civico e l’accesso universale si rinviene, poi, nell’ambito del procedimento che accompagna i due istituti. L’accesso civico, infatti, non necessita di contraddittorio con eventuali controinteressati, poiché il bilanciamento tra l’interesse alla pubblicità e l’interesse alla segretezza è effettuato a monte dal Legislatore; l’accesso universale, invece, ponendo limitazioni derivanti dalla necessità di tutelare alcuni diritti fondamentali, richiede il contraddittorio con gli eventuali controinteressati.
Quanto alla distinzione tra accesso classico e accesso generalizzato, aventi entrambi ad oggetto tutti gli atti detenuti dall’Amministrazione, va colta nei diversi limiti che la legge frappone all’ampiezza dell’uno e dell’altro. Infatti, con l’intento di bilanciare l’estensione dell’ambito applicativo dell’accesso generalizzato il Legislatore del 2016 ha introdotto, nel corpo del D.lgs. 33/2013 l’art. 5 bis, recante la disciplina relativa ad esclusioni e limiti all’acceso generalizzato.
Si tratta di limiti ed esclusioni che, in quanto frapposti ad un accesso del tutto slegato da requisiti legittimanti hanno portata molto più ampia (anche perchè descritti con riferimento al solo interesse in rilievo) rispetto a quelli puntualmente indicati (con riferimento a specifiche categorie di atti sottratti all’accesso) dall’art. 24 L. 241/1990 con riguardo all’accesso classico.
Non è un caso che la Giurisprudenza ha avuto cura di rimarcare la necessità di tenere distinte le tre fattispecie di accesso, proprio al fine di “calibrare i diversi interessi in gioco, allorchè si renda necessario un bilanciamento, caso per caso, tra tali interessi”: tale bilanciamento è, infatti, ben diverso, come chiarito, nel caso dell’accesso ex L. 214/1990, dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a documenti pertinenti e nel caso dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità, se del caso, in relazione all’operatività dei limiti, ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità e diffusione di dati, documenti e informazioni”.