Mercoledì, 03 Luglio 2024 05:41
Maria Mingione

Maria Mingione

L’art. 1 della L. 241/1990 stabilisce che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla Legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza.

La concreta applicazione dei menzionati criteri, nonché dei principi di collaborazione e buona fede di cui al comma 2 bis dello steso art. 1, è favorita dalla previsione di una serie di puntuali regole procedimentali, che l’Amministrazione è tenuta ad osservare per l’accertamento dei fatti e la valutazione degli interessi, prodromici all’assunzione di ogni decisione.

Uno degli strumenti attraverso i quali si realizza, al contempo, l’effettività e l’utilità della dialettica procedimentale è l’istituto del preavviso di rigetto o preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’art. 10 bis della L. 241/1990, il quale è volto ad assicurare al privato istante un’adeguata tutela dell’interesse partecipativo a rappresentare tutti i fatti e gli interessi utili ai fini del conseguimento del bene della vita richiesto, in contraddittorio con l’Amministrazione procedente ed anche in contraddizione rispetto agli esiti istruttori e ponderativi di quest’ultima.

A tenore di tale disposizione, è escluso che l’amministrazione possa negare il bene della vita richiesto dal privato per un motivo diverso da quello rilevato in sede di comunicazione dei motivi ostativi. All’amministrazione, è consentito, eventualmente, addurre i soli motivi ostativi ulteriori che siano conseguenza delle osservazioni dell’istante cui sia stato notificato il preavviso di rigetto. Per di più, in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere, l’Amministrazione non potrà addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.

Tale regola, nell’ambito dei procedimenti ad istanza di parte, è preordinata a sollecitare, a fronte dell’emergere, in sede istruttoria, di motivi potenzialmente ostativi all’accoglimento della domanda, un preventivo e doveroso contraddittorio endoprocedimentale e, quindi, la formulazione di eventuali osservazioni e controdeduzioni, se del caso accompagnate dalle necessarie allegazioni documentali.

Il mancato accoglimento dell’istanza è legittimato solo da specifica giustificazione, trasfusa nella motivazione del provvedimento definitivo, fondata sulla ritenuta inidoneità o irrilevanza delle osservazioni formulate dal privato, con salvezza delle nuove e diverse ragioni ostative che dovessero eventualmente emergere successivamente.

In definitiva, lo scopo del nuovo art. 10 bis della L. 241/1990 è quello di obbligare la P.A. a concentrare tutte le ragioni a fondamento del provvedimento sfavorevole nell’ambito del medesimo, ponendo il privato al riparo dalle conseguenze di una riedizione pressochè infinita del potere amministrativo, con conseguente, defatigante moltiplicazione dei giudizi impugnatori.

Di recente, con le sentenze n. 3480 del 4.05.22 del Consiglio di Stato e n. 597 del 18.05.22 del CGA della regione Siciliana, la Giustizia Amministrativa è tornata a pronunciarsi sul principio del c.d. “one shot temperato”, un vincolo di derivazione giurisprudenziale che impedisce all’Amministrazione pubblica di esprimersi in modo analogo su una medesima questione per un numero infinito di volte dopo ogni annullamento giurisdizionale.

Alla stregua di tale principio, in caso di annullamento in giudizio di un provvedimento di rigetto dell’istanza avanzata dal privato, all’Amministrazione residua esclusivamente il potere di adottare un nuovo provvedimento di rigetto fondato su una motivazione diversa da quella già adottata in occasione dell’adozione del primo provvedimento.

Va precisato che nel nostro ordinamento non vige il principio del cosiddetto “one shot puro”, in virtù del quale sarebbe preclusa all’Amministrazione la reiterazione del provvedimento di rigetto a seguito dell’annullamento di un primo provvedimento, bensì un principio differente, appunto temperato, che “consente all’Amministrazione pubblica che abbia subìto l’annullamento di un proprio atto, di rinnovarlo una sola volta e, quindi, di riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati”

Secondo la ricostruzione confermata dal Giudice Amministrativo d’appello, al dovere della PA di riesaminare complessivamente la situazione a seguito della pronuncia di annullamento, consegue la definitiva preclusione per l’avvenire e, in sostanza, per una terza volta, di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato.

Si attribuiscono quindi all’Amministrazione due chances decisionali, all’esito delle quali essa esaurisce il proprio potere di rinnovazione, alla condizione che i giudicati annullatori (quello afferente all’atto iniziale e quello afferente all’atto successivo) non riguardino vizi meramente procedimentali, bensì il merito della vicenda (così CdS, sent. 439 del 29.01.2015).

La ratio sottesa a tale principio è trovare un “punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi” (CdS, sent. n. 3480 del 4.05.22).

L’esigenza di garantire il principio di rieffusività del potere amministrativo (corollario della tendenziale inesauribilità del medesimo) è così controbilanciata da quella di assicurare che le liti abbiano un termine, garantendo il rispetto del giudicato giurisdizionale, finalità a cui non può non essere data anche una lettura “a vantaggio” del privato, astrattamente costretto, in caso contrario, a ricorrere all’infinito contro nuovi atti della PA analoghi a quelli già giudicati illegittimi.

 

 

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Tra i limiti che il Legislatore pone al diritto di accesso vi è quello relativo all’esclusione degli atti relativi a procedimenti tributari. In particolare ai sensi dell’art. 24 della L. 241/1990, il diritto di accesso è escluso “nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano”.

L'esclusione dell'accesso "nei procedimenti tributari" ha natura temporalmente limitata alla conclusione del procedimento tributario, sicché esso risulta precluso in pendenza del procedimento, mentre è ammesso al ricorrere dei presupposti della l. n. 241/1990, una volta concluso il procedimento.

Soltanto nella fase di pendenza del procedimento tributario gli atti relativi ad un accertamento fiscale sono inaccessibili, non rilevando, al contrario, alcuna esigenza di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento, con l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento, essendo tale fase deputata alla tutela in giudizio delle proprie situazioni giuridiche soggettive, ritenute lese dal provvedimento impositivo (T.A.R. Palermo, (Sicilia) sez. II, 10/02/2023, n.450).

Sul tema si è sviluppata un’ampia giurisprudenza volta a circoscrivere la preclusione sopra riportata.

Approdo di tale sviluppo pretorio è rappresentato da un recentissimo intervento dell’Adunanza Plenaria ( Cons. Stato, Ad. Plen, 14 marzo 2022, n. 4) in materia di accesso alle cartelle di pagamento che ha ribadito il principio fondamentale dell’accessibilità di tali documenti da parte di soggetti titolari di un interesse difensivo e concreto.

L’Adunanza Plenaria ritiene opportuno chiarire che la cartella di pagamento va considerata come documento amministrativo accessibile ai sensi dell’art. 22 della L. 241/1990.

La cartella, da una parte è lo strumento che nel procedimento di esecuzione esattoriale serve a portare a conoscenza del contribuente, mediante notifica, l’esistenza del titolo esecutivo posto a base dell’esecuzione esattoriale e costituita dal ruolo, dall’altro incorpora il contenuto del “precetto”, ovvero contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorno dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata.

L’Adunanza, dunque, formula i seguenti principi di diritto: “Il concessionario della riscossione, ai sensi dell’art. 26, comma 5 del D.P.R. 602/1973, ha l’obbligo di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella di pagamento, anche quando esso si sia avvalso delle modalità semplificate di diretta notificazione della stessa a mezzo di raccomandata postale.

Qualora il contribuente richieda la copia della cartella di pagamento, e questa non sia concretamente disponibile, il concessionario della riscossione non si libera dell’obbligo di ostensione attraverso il rilascio del mero estratto di ruolo, ma deve rilasciare una attestazione che dia atto dell’inesistenza della cartella, avendo cura di spiegarne le ragioni”.

Il rilievo peculiare e autonomo che sia la giurisprudenza che il legislatore hanno dato all’estratto di ruolo conferma che esso è un atto ontologicamente diverso dalla cartella di pagamento: il primo è un mero strumento di conoscenza, la seconda è un atto fondamentale del procedimento di esecuzione esattoriale che deve essere notificato al contribuente e conservato in copia a cura del Concessionario.

Corollario di tale ricostruzione è che ove il contribuente chiede accesso alla cartella di pagamento e questa rientri nel periodo di obbligatoria conservazione, è solo con il rilascio della copia della cartella di pagamento, e non con l’estratto di ruolo, che il Concessionario adempie esattamente ai suoi obblighi di ostensione.

 

 

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L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza.

La partecipazione offre la possibilità ai soggetti legittimati di "presentare memorie scritte e documenti" nonchè di "prendere visione degli atti del procedimento" (art. 10 L. 241/90).

Il diritto di accesso ai documenti amministrativi spetta a tutti i soggetti interessati, intendendosi come tali “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento amministrativo al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, comma 1, lett. b), L. 241/1990).

L'accesso deve essere considerato non solo ed esclusivamente come un istituto capace di permettere la conoscenza dei documenti amministrativi in via strumentale alla partecipazione procedimentale o alla difesa in giudizio, ma anche come idoneo ad ottenere la conoscenza di atti del procedimento amministrativo, ogniqualvolta venga allegata la sussistenza di un interesse alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, la cui nozione è più ampia ed estesa rispetto a quella dell'interesse all'impugnazione, potendo avere ad oggetto atti idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei confronti dell'istante indipendentemente dalla sussistenza o meno di una loro lesività (T.A.R. Valle d'Aosta sez. I, 16/11/2020, n.58).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la recente pronuncia n. 4/2021, affronta la questione sottesa al tipo di valutazione che deve investire il collegamento fra esigenza di ottenere l’ostensione del documento ed esigenza difensiva dell’istante.

L’Adunanza Plenaria, nelle precedenti sentenze gemelle nn. 19, 20 e 21 del 2020 pur avendo chiarito la rilevanza “complementare” dell’accesso difensivo rispetto al sistema di acquisizione probatoria del giudizio civile, non ha precisato i poteri di valutazione dell’istanza di accesso difensivo da parte dell’amministrazione.

L’Adunanza torna a pronunciarsi in tema dell’accesso agli atti in materia di documentazione finanziaria detenuta dall’Anagrafe tributaria per risolvere alcuni aspetti rimasti irrisolti con riferimento al tema dell’accesso documentale “difensivo”. I chiarimenti si intendono necessari in considerazione dei dati in possesso dell’anagrafe tributaria che consentono di ricostruire le vicende patrimoniali e personali, di ogni cittadino.

L’Adunanza plenaria affronta la questione se l’amministrazione, in sede di valutazione di una domanda di accesso difensivo a documenti amministrativi, debba operare un giudizio di “mera attinenza” oppure di “stretto collegamento” tra atti richiesti e difese da apprestare nell’ambito di un processo pendente o da instaurare.

Ebbene, ai fini del bilanciamento tra il diritto di accesso difensivo, preordinato all’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale in senso lato, e la tutela della riservatezza (nella specie, cd. finanziaria ed economica), secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, per l’Adunanza Plenaria, non trova applicazione né il criterio della stretta indispensabilità (riferito ai dati sensibili e giudiziari) né il criterio dell'indispensabilità e della parità di rango (riferito ai dati cc.dd. supersensibili), ma il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico, ritenuto dal legislatore tendenzialmente prevalente sulla tutela della riservatezza, a condizione del riscontro della sussistenza dei presupposti generali dell’accesso documentale di tipo difensivo. E, allora, afferma la Plenaria, il collegamento tra la situazione legittimante e la documentazione richiesta, impone un’attenta analisi della motivazione che la pubblica amministrazione ha adottato nel provvedimento con cui ha accolto o, viceversa, respinto l’istanza di accesso.

A tal fine l’Adunanza Plenaria, dopo avere ricostruito i presupposti dell’accesso difensivo, fissa i seguenti principî di diritto: In materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poichè l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare; la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla L. 241/1990”.

 

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Le differenze con la legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo

Il procedimento amministrativo è una sequenza ordinata di atti, fatti e operazioni, posti in essere da più uffici o organi, collegati tra loro e finalizzati al conseguimento di un risultato: l’emanazione del provvedimento amministrativo.

La Legge 7 agosto 1990, n. 241 ha, per la prima volta, sancito la possibilità per i privati cittadini di partecipare all’attività amministrativa su di un piano paritario con l’amministrazione, il tutto nell’ottica di una sempre più accentuata democraticizzazione dei rapporti tra autorità e privati.

Il capo III della legge 241/1990 (articoli da 7 a 13), titolato “Partecipazione al Procedimento Amministrativo”, disciplina gli strumenti con cui il legislatore garantisce la partecipazione dei privati al procedimento, improntando lo stesso al dialogo e al contraddittorio tra parte pubblica e parte privata, ai fini di un confronto collaborativo.

Ruolo chiave, in questo contesto, riveste il responsabile del procedimento che ha il compito di gestire la fase istruttoria e, allo stesso tempo, di garantire il confronto dialettico tra P.A. e cittadini, essendo egli il soggetto deputato a interagire con il privato, in rappresentanza della P.A., al fine di addivenire ad un provvedimento quanto più possibile “condiviso”.

I destinatari delle facoltà partecipative sono specificamente individuati dall’art. 7, L. 241/1990, che elenca i soggetti ai quali va necessariamente inviata la comunicazione di avvio del procedimento.

La previsione, ex art. 9, della facoltà dei portatori degli interessi diffusi di partecipare al procedimento ha fatto sorgere la necessità di stabilire se tale partecipazione sia necessaria e sufficiente per riconoscere agli stessi la legittimazione processuale e amministrativa.

Secondo l’opinione prevalente, l’art. 9 della legge 241/1990 non riconosce di per sé la legittimazione processuale a tutti i soggetti portatori di interessi collettivi che abbiano in concreto partecipato al procedimento. E’, quindi, rimesso rispettivamente all’Amministrazione procedente e all’Autorità giudiziaria il compito di verificare, nel singolo caso, se il soggetto interveniente abbia effettiva legittimazione procedimentale e processuale, in quanto portatore di un interesse differenziato e qualificato, senza che la valutazione operata in sede di procedimento vincoli quella da rinnovarsi nella sede processuale.

A ben vedere, la partecipazione al procedimento amministrativo e la legittimazione processuale svolgono funzioni distinte all’interno dell’ordinamento: la prima non soltanto tutela preventivamente gli interessi dei soggetti suscettibili di essere incisi dal provvedimento, ma fornisce all’amministrazione una gamma ampia di informazioni utili per meglio esercitare il potere.

Essa è riconosciuta al fine di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa a tutti i soggetti ed enti che, a prescindere dalla sussistenza di un interesse destinato a essere sacrificato in virtù del provvedimento finale (interesse difensivo), siano concretamente interessati a fornire un apporto collaborativo all’operato dei pubblici poteri (interesse partecipativo).

Ha, dunque, un ambito più ampio ed esteso della legittimazione processuale, che invece può essere riconosciuta solamente al titolare di una situazione giuridica soggettiva in senso proprio, che ha subito una lesione alla quale occorre porre rimedio, ossia ai titolari di un interesse sostanziale e non meramente partecipativo o collaborativo e, quindi, ai soli titolari di interessi collettivi legittimati a intervenire nel procedimento, a titolo squisitamente difensivo.

La partecipazione al procedimento, dunque, costituisce applicazione del principio del giusto procedimento, secondo il quale il procedimento amministrativo deve essere disciplinato in modo tale che gli organi amministrativi impongono limitazioni ai cittadini solo dopo aver svolto gli opportuni accertamenti, aver consultato gli organi pubblici in grado di fornire elementi utili ai fini della decisione e aver messo gli interessati in grado di esporre le proprie ragioni, con possibili effetti deflattivi sul piano dei ricorsi amministrativi e giurisdizionali.

 

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Il diritto tributario è la scienza giuridica che ha ad oggetto lo studio dei principi e delle norme pubblicistiche che si occupano dell’istituzione, della disciplina e dell’attuazione dei tributi, che rappresentano la principale forma di entrata pubblica di diritto pubblico.

L’applicazione del principio del contraddittorio alla materia tributaria, sia per i profili relativi al processo tributario, sia per quelli relativi al procedimento, richiede una previa ricognizione della rilevanza di tale principio all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.

A differenza di quanto stabilito dalla legge generale sul procedimento amministrativo (legge 241/1990), in cui la partecipazione del privato assurge a principio cardine del procedimento, nel diritto tributario, almeno fino agli anni ’90, le ipotesi di partecipazione del contribuente al procedimento erano rare e contrassegnate da finalità collaborative, piuttosto che difensive.

Recentemente la Corte Costituzionale con la sentenza n. 47/2023 afferma l’esistenza del principio del contraddittorio nell’ambito delle indagini tributarie, qualificando l’assetto normativo esistente come distonico rispetto all’evoluzione del sistema tributario. Invita, pertanto, il legislatore ad intervenire quanto prima per il riconoscimento della generalità del diritto al contraddittorio con una norma nazionale di sistema.

Tuttavia, osserva la Consulta, alla frammentazione delle norme sul contraddittorio propria del diritto interno, si contrappone la previsione, in capo all'amministrazione tributaria, di un obbligo generale di attivarlo, ogniqualvolta adotti decisioni che rientrano nella sfera di applicazione del diritto europeo. Infatti, proprio il rispetto dei principi fondamentali del diritto europeo implica, secondo la giurisprudenza di legittimità, che, nell'accertamento dei cosiddetti “tributi armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell'Unione, vige un generale obbligo dell'Amministrazione di instaurare un'interlocuzione preventiva con il contribuente, la cui inosservanza può portare all'invalidità dell'atto impositivo, ma solo se questi assolve alla “prova di resistenza”, allegando le ragioni che avrebbe potuto far valere in sede procedimentale e il conseguente pregiudizio sostanziale subito (cfr Cassazione, pronunce nn. 24823/2015, 9076/2021, 7690/2020, 24699/2019, e 17897/2019).

Il diritto al contraddittorio nel procedimento tributario presuppone il diritto di accesso ai documenti in possesso dell’amministrazione dai quali possa concretamente scaturire un atto lesivo della sfera giuridica del contribuente. Il diritto di accesso al fascicolo procedimentale rappresenta l’unico strumento in base al quale il contribuente può venire a conoscenza di fatti che potrebbero giustificare il suo intervento a correzione o integrazione della posizione assunta dall’amministrazione.

In questo senso, occorre riconoscere che lo strumento degli avvisi bonari, ampiamente diffuso all’interno del procedimento tributario, rappresenta un elemento di collaborazione tra contribuente e amministrazione finanziaria. Il passo successivo è quello del diritto alla rettifica di quei fatti che il contribuente ritenga errati.

Nel caso in cui la richiesta di rettifica non sia condivisa dall’amministrazione, questa potrà e dovrà tenere conto delle argomentazioni prospettate dal contribuente, inserendole nella motivazione dell’atto di accertamento, così da consentire al contribuente stesso di incardinare la propria richiesta

di giustizia in modo coerente con la propria attività endoprocedimentale.

La legge delega della riforma fiscale (Legge 111/2023) costituisce la consacrazione definitiva del diritto al contraddittorio preventivo come un pilastro portante dell’ordinamento tributario.

Infatti, l’articolo 17 della predetta Legge indica i principi e i criteri direttivi specifici per la revisione dell'attività di accertamento, prevede l’applicazione in via generalizzata del principio del contraddittorio, a pena di nullità, fuori dai casi dei controlli automatizzati e delle ulteriori forme di accertamento di carattere sostanzialmente automatizzato.

La delega intende garantire l’effettività del contraddittorio, con la previsione di un termine congruo a favore del contribuente per replicare alle conclusioni cui l’Amministrazione è giunta al termine dell’attività istruttoria e l’obbligo di pronunciarsi espressamente sulle osservazioni formulate dal contribuente, sicché l’atto conclusivo rappresenti il frutto di un profondo convincimento maturato dall’Amministrazione sulla legittimità e sostenibilità della propria pretesa.

 

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