Mercoledì, 08 Maggio 2024 21:46

Paralisi del parlamento italiano

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Argomento scottante di cui nessuno parla ma di cui i politici saranno costretti a parlarne, prima o poi. Come si è giunti alla paralisi è bene ricordarlo: Il 18 maggio 2018 il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno sottoscritto il "Contratto per il governo del cambiamento", dando vita al governo Conte I. L'accordo di governo prevedeva una serie di riforme istituzionali, tra cui la drastica riduzione del numero dei parlamentari a 400 deputati e 200 senatori. Alla fine di intense campagne di incitamento all’odio verso la politica, dibattiti parlamentari basati sul “tutti contro tutti”, spesso passati alle vie di fatto in diretta televisiva, la questione approdò alla Corte Suprema di Cassazione su iniziativa di 71 Senatori, il 10 Gennaio 2020, i quali depositarono la richiesta di referendum costituzionale, il quarto della storia della repubblica. Senatori appartenenti a quasi tutti i gruppi parlamentari, con l'esclusione di FdI e il gruppo per le autonomie. Il 20 e 21 Settembre 2020 la parola passò agli Italiani che affluirono ai seggi in poco più della metà degli aventi diritto al voto, il 51,12%. A larga maggioranza, con il 69,96% di SI, i cittadini accettarono la drastica riduzione della propria rappresentanza in parlamento. Così recita il réfran istituzionale: “l’obiettivo è duplice: da un lato favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini e dall’altro ridurre il costo della politica, con un risparmio stimato di circa 500 milioni di euro in una Legislatura.” (fonte www.riformeistituzionali.gov.it) . Dopo 3 anni, in questa fase della 19° legislatura parecchie cose funzionano sempre peggio. Il giovedì ad esempio, alla camera dei deputati, non ci sono più le interpellanze urgenti perché non ci sono gruppi parlamentari che le presentano, altre volte invece hanno addirittura sconvocato la seduta la mattina dello stesso giorno, e fino a settembre inoltrato, non c'è stata una seduta una. Eppure nel frattempo il governo non è stato inerte ma al contrario, ha intrapreso numerose azioni, alcune senza dubbio meritevoli di un’interpellanza urgente. In compenso la vicenda privata di un ministro imprenditore, vicenda che a nessun titolo riguarda il parlamento, men che meno i cittadini, ma semmai la magistratura, entra nella vita delle istituzioni aprendo a pedate la porta della camera alta. Ancor più singolare è l’assetto delle commissioni bicamerali, le cui norme sono stabilite per legge, infatti a fine settembre esse sono ancora impostate con la vecchia composizione, e su quelle bisognerebbe intervenire urgentemente, con legge parlamentare, poiché queste commissioni hanno peculiari funzioni di inchiesta, vigilanza, controllo e consultive. Su questo mare in gran tempesta veleggia il paradosso della commissione per le questioni regionali: mentre alcuni si occupavano di annunciare il federalismo differenziato, la commissione referente è stata formata il 13 Settembre 2023, che di fatto è stata una commissione fantasma per molti mesi in cui si è discusso e progettato di questioni vitali per le regioni, senza nessuno a vigilare. Infatti nella Delega Fiscale che durerà 24 mesi, al di là dei proclami che fanno riferimento a regole e principi generali astratti, non c’è una prospettiva organica di finanza erariale decentrata, rinviando di continuo ad una non meglio precisata riorganizzazione generale del sistema territoriale senza chiarire come gli ostacoli possano essere superati e con quali risorse. Un quadro incompleto, un documento negletto, un pasticcio di sigle, Irap, Ires, Irpef, Iva, Imu, e cifre buttate a caso tra le sue pieghe, rendendo di fatto l’autonomia differenziata un puzzle impossibile da completare grazie anche alla complicità di numerosi doppioni sovrapposti e pezzi di intere scene mancanti, come ad esempio la fiscalità degli enti locali; comuni per i quali non vi è sostanzialmente nulla se non un “copia e incolla” di antichi richiami ai principi generici di autonomia tributaria, potenziamento dei tributi propri, semplificazioni procedurali e della riscossione etc. che giacciono, impilati sui fascicoli delle cose da fare, sin dalla notte dei tempi, secondo i principi generalissimi, sui quali dulcis in fundo incombe lo spettro della ZES UNICA per il mezzogiorno, un Moloch burocratico con il controller adagiato sulla scrivania dello studio del “Premier” a palazzo Chigi. Con queste premesse, se e quando “l’apparato” andrà a regime, la produzione si bloccherà subito dopo come già succede oggi al senato e alla camera, dove i parlamentari fanno fatica ad stare dietro agli “ordini del giorno” anziché dedicarsi alla loro naturale funzione, messa all’angolo da un rapporto forzato 8 a 2. Una situazione preoccupante che era stata ampiamente anticipata prima ancora che si materializzasse con un quadro così controverso, già intravisto all’orizzonte quando fu dibattuta la riduzione del numero dei parlamentari. I padri costituenti avevano concepito un parlamento composto da un certo numero non per caso o per capriccio, ma dopo un’attenta valutazione del passato, dello status del paese, ma soprattutto del futuro, fissando ad esempio uno stesso numero di parlamentari per ogni commissione, sia alla camera che al senato, dandogli ha un senso, un significato storico ben preciso in un contesto di 630 senatori e 350 deputati, ben diverso dai significati storici che hanno portato alla formazione degli altri parlamenti europei, sui quali oggi si pretende di appiattire il nostro assetto costituzionale che, anche se menomato, rappresenta ancora un forte argine di democrazia. Mancanza di competenza: nel momento in cui si cede, per volontà popolare, ad una drastica riduzione della rappresentanza, è evidente che si dovrà rivedere la modalità con la quale si farà funzionare una commissione progettata per una rappresentanza numericamente diversa, altrimenti ecco che prontamente si materializza, banalmente, la difficoltà di mantenere un registro di eventi, di appuntamenti, di attività parlamentari elaborato in modo coerente e produttivo. Certo che gran parte delle difficoltà sono legate al numero di parlamentari ma è altrettanto vero che il fenomeno è dovuto anche ad una ragione più profonda, strutturale, individuata nello scarso curriculum dei parlamentari neoeletti. Infatti ad ogni nuova legislatura c’è un significativo impatto dovuto al “noviziato” , intorno al 65%, poiché bisognerà pur imparare a fare il parlamentare.

Qualcosa è andato più storto del dovuto, è evidente; nelle ultime legislature gli Italiani che si sono recati alle urne, hanno portato in parlamento cittadini senza un curriculum politico, sostanzialmente privi sia di un chiaro senso delle istituzioni e sia di una conoscenza minima del loro funzionamento. Senza radici ne identità, arrivare alla cessione totale dello spazio operativo, dal potere legislativo al potere esecutivo, è stato un attimo. Non molti anni fa il curriculum cominciava a strutturarsi nelle assemblee a scuola, nelle scuole di partito, poi con la rappresentanza comunale, poi con quella regionale, poi magari si approdava in parlamento con un profilo consistente, professionale, con una solida identità politica. Un dato interessante che ci da la fotografia esatta dell’indebolimento della forza di rappresentanza popolare, è quello risultante dal confronto del rapporto tra leggi approvate di origine parlamentare e di origine governativo. Il parlamento fa la proposta di legge, la dibatte, la vota ed eventualmente approva mentre il governo “legifera” con decreti legge convertiti in legge o disegni di legge governativi con legge delega concessa dal parlamento. Dalla fine della cosiddetta prima repubblica rispetto al prodotto normativo globale, il 75-80% era prodotto dal parlamento, solo una minima parte veniva originato dal governo. Con la riduzione dei parlamentari, invece, il rapporto si è invertito con le stesse percentuali. Solo una minima parte del prodotto normativo, oggi, ha origine parlamentare, la maggioranza è invece di origine governativa. Il parlamento risulta così sommerso dagli “ordini del giorno” che, secondo gli ultimi dati consultabili sui relativi siti istituzionali, sono esorbitanti e che monopolizzano tutto il dibattito in aula. Altra cessione rilevante: uno degli strumenti con cui il parlamento esercita il ruolo di controllo dell’attività governativa è il sindacato ispettivo, il quale è stato prontamente ridimensionato, subendo così una forte compressione delle attività di interrogazione, interpellanza, ma soprattutto di interrogazioni urgenti. E’ evidente che c’è qualcosa che non funziona, forse rileggendo i regolamenti parlamentari ma soprattutto restituendo alla funzione parlamentare l’originalità del disegno della costituzione ovvero restituendo al parlamento la sua identità di elemento cardine di democrazia e di garanzia legislativa, probabilmente ci sarebbe ancora spazio di recuperare il ruolo centrale del parlamento, visto che non è ancora stato cambiato, almeno nella costituzione. Allo stato attuale il parlamento rivela tutta la sua scarsa o nulla incisività nella vita del paese, un parlamento rinunciatario, un aventino senza sdegno ne allontanamento e che evidentemente considera quella attuale una situazione, tutto sommato, accettabile. Una inquietante paralisi in cui sembrano finiti anche i presidenti di camera e senato, che per funzione dovrebbero sensibilizzare sia il parlamento a legiferare e sia i gruppi parlamentari ad una piena assunzione di responsabilità verso la propria funzione, prima ancora che verso il paese, nonostante la giunta dei regolamenti abbia adattato le maggioranze dei rispettivi gruppi al nuovo numero di parlamentari eletti. Non cambiando i numeri delle commissioni bicamerali, ad esempio quella che controlla la cassa depositi e prestiti, il parlamento non potrà, semmai lo volesse, intervenire su decisioni importanti, come nel caso della commissione delle questioni regionali mentre è in corso una riforma importante come quella di cui sopra, intervento reso necessario proprio perché trattasi di una riforma palesemente pasticciata. In un anno è stato svolto il minimo sindacale, sulla vigilanza RAI e sul COPASIR, riproponendo la solita rappresentanza “equilibrata”, poiché la giunta dei regolamenti non poteva non riadattarne l’assetto, ma null’altro di incisivo è stato fatto per il riassetto delle funzioni del parlamento. Per volontà popolare quindi si è creato un problema strutturale, un corto circuito ordinamentale dal quale emerge un’incapacità politica e un analfabetismo istituzionale generalizzato, grazie ai quali continua a sfuggire ai molti eletti il concetto di parlamento come fulcro centrale di quella che comunemente viene definita una Repubblica Parlamentare. Una democrazia parlamentare che non è presidenzialismo, neanche semi presidenzialismo, men che meno un’autocrazia, figuriamoci poi il premierato; anche se si arrivasse ad una di queste prospettive occorrerebbe addirittura un ulteriore rafforzamento del ruolo politico del parlamento nell’ordinamento stesso, ma senza una forte sollecitazione a riprendere la strada maestra indicata dalla carta costituzionale, le nuove generazioni saranno costrette a ripercorrere gli stessi sentieri dei loro antenati, sentieri di una realtà politica e sociale non particolarmente serena.

 

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