È, indubbiamente, il nuovo tormentone del periodo. Se non lo avete visto, ne avrete sicuramente sentito parlare in ogni dove. E se non ne avete sentito ancora parlare, ne leggerete ora. Ebbene sì, spendiamo anche noi due parole su “Inside out”, il nuovo film di Pete Docter, già autore di altri titoli Pixar come Monsters & co., Wall-e, Up.
Per chi ancora non conoscesse la storia, il film racconta la vicenda della piccola Riley, bambina del Minnesota che si trasferisce a San Francisco con la famiglia; ma non vi aspettate nessuna strabiliante avventura: la vicenda descritta dura poco più di qualche giorno ed è quasi tutta ambientata nel cervello di Riley, dove cinque emozioni principali -Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia- indirizzano gli stati d’animo da una plancia di comando, gestiscono la costruzione e lo stoccaggio dei ricordi, reagiscono secondo la loro natura agli stimoli esterni in un momento così critico per la bambina.
Il nodo critico della storia è rappresentato dal momento in cui Gioia e Tristezza, in questo corto circuito emotivo vissuto dalla ragazzina, finiscono per errore da un’altra parte del cervello. Il film racconta la storia parallela del loro viaggio di ritorno verso il quartier generale e di quello di Riley che cerca di tornare felice com’era nel Minnesota, sentendosi sperduta a San Francisco.
Chi lo ha visto, probabilmente per una buona parte del film si sarà chiesto cosa ci sia di così diverso e particolare in questo film rispetto ad altri. Come sarà probabile che gli stessi si siano alzati dopo i titoli di coda col fazzoletto zuppo, degno del miglior film strappalacrime, e con la sensazione di aver fatto un pianto bello, profondo e giusto.
A questo punto la domanda sorge spontanea: ma che diavoleria è mai questa?
La spiegazione è da ricercare nella matrice psicologica del film. “Inside out”, infatti, racconta le emozioni attraverso una sintesi delicata tra la fisiologia del cervello, le strutture della psiche e una vicenda personale che produce immedesimazione nel pubblico: i piccoli vedono se stessi, i grandi vedono se stessi qualche anno prima oltre ai piccoli che hanno intorno in sala, figli compresi.
Il film utilizza in maniera semplice e chiara concetti della teoria cognitiva della mente e delle teorie psicoanalitiche : da una parte inconscio e forze profonde, dall’altra emozioni, pensieri e memoria di lavoro. È tutta una grande rappresentazione allegorica della mente umana in cui ciascuna emozione è rappresentata da un simpatico cartoon, con un colore ben definito che attira i piccoli e fa sorridere i grandi.
Ciò che colpisce maggiormente, è il fatto che tutta la bonaria confusione e l’ilarità di questi simpatici pupazzetti, non è altro che il riflesso di ciò che succede nella nostra mente, di quel ciclone di emozioni che si agitano dentro di noi ogni qual volta ci troviamo a fronteggiare nuove situazioni o cambiamenti; confusione dalla quale spesso fuggiamo terrorizzati - con tutta una serie di disagi psicologici che oggi più che mai sono in continuo aumento tra la popolazione- e che invece dovremmo semplicemente accettare, al fine di poterla fronteggiare.
Perché sono le cose dentro di noi, insieme alle esperienze che facciamo, che ci fanno diventare quello che siamo.
In realtà, l’elemento davvero rivoluzionario del film è la caduta di uno dei più grandi stereotipi narrativi del cinema e della letteratura: l’idea secondo cui il sorriso gioioso, l’allegria o la realizzazione positiva di qualsiasi proposito, siano le uniche azioni e reazioni su cui focalizzarsi per essere felici. Tutti vorrebbero essere felici, e da genitori, il desiderio è che lo siano anche i propri figli, ma purtroppo non è sempre così. Ci sono anche delusioni, senso di perdita, problemi. Le altre emozioni esistono proprio per aiutarci a affrontare la complessità della vita ed ognuna ha il proprio peso e valore.
Il legame fra gioia e tristezza è, nello specifico, uno dei temi principali del film: in un’epoca in cui, più che nella ricerca, ci si affanna soprattutto nell’ostentazione -spesso forzata- della felicità, è raro trovare film che insegnino a voler bene alla tristezza, in maniera leggera e delicata, senza cadere in complicate teorie esistenzialiste e decadentiste secondo cui la gioia è solo ipocrisia.
Il tutto è condito da un po’ di commedia in cui, quando si ride, si ride di gusto, improvvisamente. Così come si piange.
E, alla fine, si esce con la consapevolezza che ci si può permettere tanto l’una quanto l’altra reazione perché è solo un film, un gioco, è finzione. Ma mica poi tanto.
MEOLA ROSA