La legge di stabilità per il 2016 che prevede anche l’abolizione della Tasi e dell’Imu (nonostante l’invito di commissione europea e Bankitalia di agire sulla riduzione delle imposte sul lavoro) per presupposti di rilancio della crescita arriva dopo timidi segnali nell’anno in corso grazie all’effetto combinato di fattori esterni quali il calo del petrolio, il QE della Bce a guida Draghi che ha consentito anche il calo dell’euro sul dollaro. L’obiettivo del 2% di inflazione che favorirebbe anche la discesa del nostro debito pubblico purtroppo è ancora un miraggio visti i dati ufficiali certificati dall’Istat del 2014 con un rapporto debito/Pil superiore al 132%, più 3,2% sul 2013 e un rapporto deficit Pil al 3%. Con un mastodontico debito, una crescita lieve e segnali internazionali ambigui la legge di stabilità con coperture in deficit (passando dall’1,4% tendenziale al 2,2% 2,4% - clausola immigrati permettendo), una spending review di 5,8 miliardi di euro, altri 2 tagliati dal fondo sanità, con la spesa pubblica salita da 821 miliardi di euro del 2012 a 838 del 2014 e nei primi 6 mesi del 2015 arrivata a 15 miliardi, le clausole di salvaguardia rinviate ad esercizi successivi (più di 15 miliardi nel 2017 e più di 19 nel biennio successivo, pone alcuni dubbi e soprattutto il vizio tutto italiano di rinviare riforme strutturali della spesa pubblica come ad esempio l’adeguamento alle regione più virtuosa dei costi standard (best price) con risparmi di decine di miliardi, le somme che le regioni concedono alle aziende per corsi di formazione inutili e clientelari. Ma c’è bisogno di una vera razionalizzazione in un ciclo economico oggi più favorevole e non emergenziale. Si procede sempre con una visione di breve periodo e non ci si sforza di guardare al lungo periodo, alle giovani generazioni e il dato della disoccupazione giovanile ne dimostra la gravità sociale. In questi anni di crisi sono stati persi investimenti pubblici e ci riferiamo a investimenti nelle infrastrutture soprattutto nel mezzogiorno, alla banda larga, a una vera riorganizzazione di offerta turistica, alla contrazione di investimenti privati con la crisi che ha colpito molti piccoli e medi imprenditori anche per la mancanza di credito concesso dalle banche che purtroppo non possono caricarsi di ulteriori crediti inesigibili, poche risorse sulla ricerca e innovazione. Dal 1999 ad oggi il Pil pro capite in Italia è sceso del 3%, mentre in area euro è cresciuto del 10%. Abbiamo un costo per unità di prodotto di lavoro del 35% in più rispetto alla Germania. Ci sono nelle intenzioni dei segnali positivi di alleggerimento del carico fiscale ma servono politiche di vero sviluppo economico che favoriscano la patrimonializzazione di imprese premiando i soci che conferiscono come in altri paesi capitali e detraendo dai loro redditi quanti versati: è necessario ridurre drasticamente la tassazione sui rendimenti di fine rapporto, sui rendimenti della previdenza complementare e del risparmio che andrebbero anche alla raccolta di capitali e di liquidità sul mercato borsistico favorendo la riduzione del debito bancario.