La crisi economica degli Anni Trenta ha lasciato ferite nel tessuto sociale che il trascorrere del tempo non ha completamente rimarginato, anche se le cronache dell'epoca e le sue immagini appartengono alla storia. Le ripercussioni negative si erano estese al decennio successivo, con effetti che avevano colpito, tra gli altri, domanda, produzione, occupazione e redditi. Questo il tenore delle premesse, l'epilogo devastante e la violenza scatenata nell'intermezzo è riprodotta in fotogrammi indelebili non solo sui libri di storia, ma anche nella memoria umana. A quei tempi, la generazione dei giovani ha pagato le peggiori conseguenze, non solo in termini di vite umane. Eppure, negli anni immediatamente precedenti la Grande Depressione, lo slogan in voga negli States era eloquente: "L'economia è il nostro destino". Oggi, al contrario, quella che la dottrina definisce "smart generation" non solo ignora ragioni e motivazioni di un triste trascorso, ma sottovaluta la pericolosità dei potenziali effetti che le circostanze attuali potranno avere sul loro futuro. E ciò supporta la tesi che di "smart" c'è poco o niente, se non quel dispositivo che quotidianamente alberga nelle loro mani al posto dei libri di scuola. Chissà se dietro quella innocente maschera di spensieratezza si nasconde un altro volto, cosciente di una prospettiva non così rosea come delineata dalla propaganda governativa. Infatti, gli impatti economici sono sempre il frutto di (in)decisioni politiche. Il comportamento del mercato ne è solo una reazione istintiva, dettata da un ipotetico pensiero razionale degli operatori economici. E poiché l'agire umano ha spesso secondi fini non dichiarati, il dubbio sui reali propositi da conseguire è più che mai effettivo! Pertanto, se di fronte alla piaga dilagante della disoccupazione giovanile qualsiasi provvedimento si allontana dal target ufficiale è normale chiedersi se l'obiettivo (non dichiarato) fosse quello di farla crescere anziché ridurla. Un interrogativo ispirato dall'immaginazione, ma che trova risposte concrete nella situazione di fatto. D'altronde, è sufficiente mettere sul piatto della bilancia i vantaggi che ne possono derivare per comprendere verso quale direzione convenga orientare le politiche del lavoro. Uno di questi potrebbe essere quello della progressiva riduzione dei salari in modo da poter gradualmente sostituire la forza lavoro esistente con nuovi occupati. La riduzione delle retribuzioni potrebbe, a sua volta, innescare una corsa al ribasso sia dei costi di produzione, sia dei prezzi di vendita. In quest'ottica, i benefici di lungo termine potrebbero risolvere l'attuale problema. Con salari inferiori a quelli attuali, la produzione delocalizzata potrebbe rientrare nei confini di origine, con la benedizione di coloro che si troveranno alla guida del Paese in quel momento, che potranno fregiarsi del titolo di essere riusciti a ridurre la disoccupazione giovanile. Ma a quale prezzo nessuno lo dirà mai!