Fra le malattie femminili, l’endometriosi è forse u delle più temute ed, al contempo, sconosciute, complice anche la difficoltà nella diagnosi spesso formulata dopo un lungo e dispendioso percorso, con possibili gravi conseguenze fisiche e psicologiche sulla donna.
È una condizione clinica caratterizzata dalla presenza patologica dell’endometrio, ovvero la mucosa che riveste la cavità uterina, anche all’esterno dell’utero. Solitamente coinvolge le ovaie, le tube e gli altri organi e tessuti presenti nella pelvi, più raramente anche gli ureteri, la pleura ed il pericardio.
L’eziologia non è nota, ma l’ipotesi più accreditata è che le cellule endometriali, tramite mestruazione retrograda, migrino, si impiantino e proliferino nei tessuti limitrofi. Questo significa che continuano a svolgere la loro normale attività anche all’esterno della cavità uterina: si ispessiscono, si rompono e sanguinano ad ogni ciclo mestruale provocando infiammazioni croniche agli organi coinvolti e causando, spesso, infertilità nella donna (circa il 30-40% delle donne affette è sterile).
Sebbene non sia ancora presente un registro nazionale per l’endometriosi, si stima che in Italia il 10% delle donne in età fertile sia affetto da questa malattia, in una fascia di età dai 15 ai 49 anni.
I sintomi sono molto generici:
Tutti i sintomi possono essere imputabili a numerose altre patologie quali cisti ovariche (che spesso si formano in presenza di endometriosi ovarica), sindrome dell’intestino irritabile o sindromi infiammatorie della pelvi.
Questo rende difficile la formulazione della diagnosi che, in base a studi osservazionali di piccole dimensioni, si è stimato arrivi con un ritardo di 4 -10 anni, con un conseguente peggioramento dello stadio della malattia e della qualità della vita della paziente.
La diagnosi viene formulata mediante indagini che vanno dall’ecografia alla risonanza magnetica, alla laparoscopia esplorativa ma nessuna di queste rappresenta il gold-standard per una identificazione certa.
l trattamento è diverso a seconda dello stadio della malattia e del soggetto affetto: terapia analgesica con FANS o paracetamolo, terapia ormonale sempre per la gestione del dolore, approccio chirurgico. Quest’ultimo dovrebbe essere preso in considerazione solo in caso di fallimento della terapia conservativa.
Maggiore è il ritardo nella diagnosi, più la patologia progredisce e maggiori saranno le probabilità che la donna debba sottoporsi ad un intervento chirurgico, spesso demolitivo (asportazione utero, ovaie, segmenti di intestino, vescica…).